La giustizia umana: dalla reclusione alla restituzione.
Se un detenuto evade ci si chiede cosa abbia fatto il carcere per evitarlo. Non è ugualmente responsabile la struttura carceraria nel momento in cui lo stesso detenuto, una volta scontata la pena, torna a delinquere? Non vi è forse il medesimo pericolo per la collettività?
È questo l’interrogativo a cui abbiamo cercato di rispondere nel corso dell’incontro che si è tenuto lunedì 20 marzo nel salone del Collegio.
Ad intervenire tre ospiti che, dei problemi legati alla prevenzione del reato, si occupano giornalmente e con dedizione instancabile.
La prof.ssa Claudia Mazzucato, docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha utilizzato un’espressione forte ma incisiva per analizzare in maniera efficace il cuore del problema: “si può essere ex detenuti ma non ex assassini”.
“La giustizia riparativa NON è la giustizia della restituzione, delle pene detentive o del “pagamento”. Essa è la GIUSTIZIA DELL’INCONTRO, è un percorso volontario in cui il reo, la vittima e i familiari, partecipano insieme per costruire quello che è stato distrutto”.
(Prof.essa Mazzucato)
La giustizia riparativa si propone come possibile soluzione del problema; essa risponde ad una precisa visione antropologica che considera il detenuto innanzitutto come persona, così da far leva sulle sue capacità, gli strumenti a sua disposizione, affinché egli possa imparare dall’errore commesso.
La giustizia riparativa, tuttavia, non ha ad oggi una collocazione nel nostro ordinamento e si configura come strumento eventuale che si inserisce nel decorso ordinario del processo penale.
Una struttura che si avvicina, seppur solo negli intenti al modello di giustizia riparativa, è quella propria della giustizia minorile. Come ha spiegato il dott. Ciro Cascone, procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Milano, il nostro codice penale è basato ancora su un modello detentivo che non guarda al futuro, che non estende lo sguardo fino a riflettere su come potrà essere la vita di quelle persone una volta uscite dalla ‘gabbia’. La giustizia minorile sul punto è un passo avanti perché dispone di istituti ad hoc per realizzare la personalizzazione del processo e della pena.
“Le persone non sono reati. In carcere non abbiamo a che fare con detenuti, casi e pene da scontare; ma con volti, persone, storie e circostanze. Rieducare significa “tirar fuori qualcosa”. È questo quello che cerchiamo di fare a Bollate, tirar fuori qualcosa di buono da chi ha commesso qualcosa di molto brutto”. (Dott. Parisi)
Al di fuori dello specifico contesto della giustizia minorile, come riusciamo a conciliare l’esigenza di una giustizia che la nostra Costituzione definisce rieducativa con un ordinamento che è essenzialmente retributivo?
Il Dott. Massimo Parisi ci propone l’esempio della Casa circondariale di Bollate, di cui è direttore, come primo tentativo di questa difficile operazione.
Nel carcere di Bollate a 1200 detenuti sono proposte quelle attività trattamentali previste dall’art. 15 della legge sull’ Ordinamento penitenziario: istruzione, lavoro, attività culturali/ricreative, contatti con il mondo estero e la famiglia.
L’obiettivo? La famigerata rieducazione del detenuto, o per meglio dire la sua risocializzazione, il tentativo di dotarlo degli strumenti per vivere nel rispetto della legge.
Nonostante i dati dimostrino la maggiore efficacia in termini di recidiva (pari al 20% nel carcere di Bollate, contro il 70% della media italiana), questo approccio non sembra riuscire ad attecchire in realtà diverse da quella di Bollate.
Su un tema così complesso ed ampiamente dibattuto numerosi sono stati gli interrogativi a cui sono sottoposti gli ospiti: c’è ugualmente giustizia per i familiari delle vittime che vedono il detenuto in un carcere come Bollate? Quali reazioni scaturiscono dalla proposta di incontrare un detenuto? Quanto tutto ciò può essere psicologicamente difficile, sia per le famiglie che per i detenuti?
Concluderei che nonostante i quesiti emersi siano indubbiamente di rilevante spessore sia da un punto di vista etico che giuridico, non bisogna mai dimenticare che il fine ultimo di questi approcci, in gran parte innovativi, è il bene della collettività, che deve certamente occupare un posto di primo piano, al di là dei pregiudizi e della morale dei singoli.
A cura di Rossella Savojardo e Maria Chiara Basilici
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