“L’altra verità/ Diario di una diversa” è la prima opera in prosa, a carattere autobiografico, nata dalla penna sensibile e acuta di una delle più importanti poetesse e scrittrici della letteratura italiana moderna: Alda Merini.
Una testimonianza diretta dei dieci anni passati in clinica psichiatrica; l’analisi, tra deliri, allucinazioni, amori tormentati, poesie e illusioni, di un luogo maledetto e grondante di dolore, in cui la natura malvagia dell’uomo trova il suo spazio fino a prendere, inconsciamente, il sopravvento. Sospeso e lontano dal mondo terreno, l’universo descritto dall’autrice non ha alcun Dio, non un appiglio, nessuna possibilità di redenzione. È un luogo in cui l’uomo è abbandonato a sé stesso ed escluso dalla realtà circostante. “Al momento dell’internamento, l’ammalato sente sopra di sé il peso della condanna, condanna che non può non riversare sulla società tutta ed anche sui congiunti. I parenti, invece, avvertono questa repulsione come uno stato di malattia e cercano di stare alla larga, anche perché non è detto che non abbiano un vago o profondo senso di rimorso. […] Ma le vere vittime restiamo pur sempre noi, perché una volta a casa ci sentiremo sempre rinfacciare quella degenza come un fatto giuridico, e non di malattia. Insomma, il malato è un gradino più su di colui che è stato in galera”. “È pericoloso uscire dai meandri della propria inquietudine per addentrarsi nella socialità”.
In manicomio, oltre ai legami con altri esseri umani, persino il tempo non ha più alcun valore: le notti si dilatano, gli attimi diventano infiniti, i giorni non hanno scansione, e i sospiri si accavallano, alla disperata ricerca di poche schegge di libertà e consapevolezza della propria situazione. Nessun particolare evento scuote la vita dei “diversi”: le poche e crudeli vicende sono mosse dalla violenza e da velati gesti di una malignità così umana da far ribrezzo. All’interno del manicomio, dove la morte indossa i panni della lunga attesa, ogni cosa è viva e in continua trasformazione: odiosa o amabile che sia, qualsiasi situazione si fa palco per coloro che, tenuti in piedi come burattini, vedono i propri fili mossi con destrezza da esseri privi di sentimenti umani, “persone” spinte da un senso di innaturale malvagità, al vertice di una brutalità così piena di burocrazia da risultare quasi banale.
Tra elettroshock e torture tanto fisiche, quanto psicologiche, acuto è lo sguardo della poetessa su questo inferno, che alterna gli orrori all’illusione. Un diario, una voce senza traccia di leggerezza d’animo o di facili condanne, in cui emerge la profonda confusione che muove alcune delle scelte della poetessa, ma al tempo stesso la sicurezza di sé e delle proprie emozioni, in una sorta di innocenza trasparente e veritiera che osserva senza mai rinnegare la malattia, o la fatica del non sentire i respiri e i bisogni altrui. La riflessione si fa così poesia. Interrogativi e dubbi diventano rime. Orrori e barbarie, incapacità di comprendere e di essere compresi divergono in una narrazione che, nonostante tutto, è un inno alla vita e alla forza della libertà.
In fondo, dunque cos’è la follia? I pazzi da chi sono diversi? Se la natura umana è così vasta ed eterogenea, si può parlare di sanità mentale? “L’uomo è socialmente cattivo, un cattivo soggetto. E quando trova una tortora, qualcuno che parla troppo piano, qualcuno che piange, gli butta addosso le proprie colpe, e, così, nascono i pazzi. Perché la pazzia, amici miei, non esiste. Esiste soltanto nei riflessi onirici del sonno e in quel terrore che abbiamo tutti, inveterato, di perdere la nostra ragione”.
Così allora l’anima sensibile scava fino in fondo alla ricerca dei “perché” della vita e, quando arriva alle profondità più oscure, si scontra con il timore del beffardo trasformismo del male che si manifesta vestito di paure, nelle quali la mente si allarma e si confonde… non è forse questo l’inizio della vera follia?
A cura di Chiara De Stefano
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