L’empatia: L’antidoto più Potente Alla Guerra

Un’esplosione, un boato, un rumore sordo che ti entra in casa, sottile, subdolo, che si insinua nella tua quotidianità fino ad avvolgerla del tutto. Una coltre di dolore, amarezza, senso di abbandono e consapevolezza che la vita, da quel momento in poi, non tornerà più la stessa: questa è la guerra. La guerra che cambia improvvisamente le carte in tavola, il cui potere è così forte da sconvolgere l’esistenza, ma di cui noi, talvolta, non siamo a conoscenza.

Per questa ragione, sabato 27 ottobre, il Collegio Marianum ha ospitato una giornata di studio interamente dedicata a questo tema, dal titolo “La violenza estrema della guerra”, organizzata dalla SIRTS, Società italiana di ricerca e terapia sistemica.

In apertura, l’intervento di Michela Paschetto, Coordinatrice della divisione medica di Emergency a Milano, che, con sguardo intenso e sereno e un’esperienza incancellabile alle spalle, mette a nudo, con semplicità disarmante, le atrocità della guerra in due paesi profondamente diversi, dove lei stessa ha lavorato: l’Afghanistan e l’Iraq. In questi territori, la guerra ha due connotazioni differenti; mentre in Afghanistan, infatti, i conflitti perdurano ormai da decenni e la gran parte della popolazione non ha conosciuto altro che un contesto di instabilità e privazioni pressoché dalla nascita, l’Iraq si è trovato, invece, completamente impreparato a una simile minaccia, che ha avuto un effetto psicologico devastante sui civili. È il 1991, l’inizio della Guerra del Golfo, quando gli aerei americani si scagliano su Baghdad, capitale irachena, in un bagliore di luci e colori che lascia tutti impietriti, affascinati, stupiti: è il fascino estremo della guerra, di una violenza che non ha nome o bandiera, ma che stordisce al punto da far credere, a chi la guarda dallo schermo di un televisore, che non possa essere reale. Eppure le cicatrici sulla pelle delle vittime restano; gli animi turbati, sconvolti, a brandelli, anche.

È proprio questo il problema fondamentale della guerra: la disumanizzazione estrema che essa porta con sé, la giustificazione a compiere atti che in altri contesti verrebbero condannati senza appello. Ed è quello di cui si è occupata la seconda ospite dell’incontro, la dottoressa Alexia Jacques, docente presso la Libera Università di Bruxelles, che ha lavorato come psicologa in Burundi, subito dopo la guerra civile tra gli Hutu e i Tutsi. Qui, il desiderio di potere, celato da una rivalità etnica fomentata anche dalle radio, primissimi mezzi di incitamento all’odio, ha portato a conseguenze tragiche e a danni morali inestimabili. Dal punto di vista terapeutico, si realizza, in questi casi, un processo di “riumanizzazione”, che parte dalla riacquisizione della consapevolezza del proprio corpo non come veicolo e oggetto di violenza, bensì come elemento centrale della nostra condizione di uomini.

Il corpo, la mente, il cuore: tutte cose che accomunano indistintamente carnefici e vittime, oppressori e oppressi e da cui bisogna ripartire per ricostruire identità ormai spezzate. Ritrovare negli altri un qualcosa di simile a noi stessi è il primo passo per vedere l’altro in noi; è la cosiddetta “empatia”, dall’ etimologia greca “sentire dentro”, ovvero la capacità di percepire situazioni esterne come interne al nostro intimo. Soltanto in questo modo riusciremo a immedesimarci pienamente nell’ individuo che ci sta di fronte, sentendoci in armonia con quest’ultimo e percependone gioie e dolori come se li stessimo vivendo noi in prima persona. È l’empatia che salverà il mondo.

Elena Cafagna

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