“Insegnaci a contare i nostri giorni (decenni) e giungeremo alla sapienza del cuore” (Salmo 89).

Ottant’anni del nostro magnifico Marianum, vent’anni dell’Associazione MEA non sono un monumento di polvere o un’operazione cosmetica, ma un arco di fatiche e di consolazioni, un invito alla verifica, all’ascolto, alla riconoscenza, a progettare, chiamati dal futuro dopo aver verificato la saldezza delle radici. Ci sono stati donati, dal Dio del centuplo, “lunghi giorni/anni per gustare il bene” (Salmo 33). Siamo convenuti, ragazze giovani da poco o da tanto tempo, per un confronto maggiorenne, per scambiarci una luce con vibrazioni familiari, per avere nuovi sguardi avendo raccolto il testimone. Ascoltando con simpatia i solchi del passato, raccogliendo i ricordi che sono i capelli bianchi del cuore, affamati di inedito, ci siamo accorti che il tempo è la pazienza di Dio e in Lui memoria e speranza sono sorelle. Certo, il giovane cammina più veloce dell’anziano, ma l’anziano conosce la strada, perciò il futuro ha un cuore antico, ai ritmi dell’alleanza garantita tra Dio e il suo popolo: “Io sono colui che (ci) sono” (Esodo 3,14: il pi greco di noi pellegrini di senso).

In collegio, come al guado di Betania, l’espansione dell’amicizia diventa l’ottavo sacramento, la vita di ognuno si ritrova impastata della vita dell’altro (“Cum lego”), i luoghi si tingono per noi dei fatti della nostra vita per essere portatori di un’identità e non prigionieri di una finzione. Qui sono nati legami non biodegradabili, qui le odierne ricorrenze ci ricordano che la tradizione è una radice, ma non una catena o un ritorno dell’uguale. Chi ieri voleva cambiare il mondo oggi si accontenta di descriverlo…

Questa celebrazione compie il nostro ritrovarci, facilita il nostro “grazie” (parola che tutte le riassume). Come l’Eucaristia è il darsi di Dio nel pane spezzato così nessuno di noi è talmente povero da non avere almeno se stesso da dare agli altri, attenti a non curvarci se non per amare, attenti a non essere felici da soli (tra l’altro geograficamente siamo collocati vicini a un carcere e ad un ospedale).

Sappiamo che nella storia della nostra “repubblica femminile” c’è e c’è stato e quindi ci sarà molto di più di quel che appare. Abbiamo imparato al Marianum uno straordinario incontro dei saperi per diventare ciò che siamo: “sale e luce del mondo” (Matteo 5), al crocevia ripetuto del continuo mescolarsi di umanità assortite in questa città esagerata che comincia sempre e non finisce mai, nella quale il sole tiene la faccia di un povero. Nei momenti di festa, nei tempi rugosi dello studio (quando – pensiamo alla sessione estiva – le zanzare cantano in gregoriano e le ore passano come suore in preghiera e la calura violenta sloga la realtà), nelle proposte spirituali, culturali, di svago o di confronto, nelle amicizie come nelle commissioni, impariamo che il Collegio è voce privilegiata per una vita di qualità della vita universitaria, suppone cioè l’Università come l’eco il primo suono. Impariamo che il progetto formativo nell’attuale sua forma ordinata, non è una frusta, ma uno spartito per una dedicazione maiuscola che si fa attenzione al bene comune. Impariamo che le idee valgono non per quello che rendono, ma per quel che costano, come l’oro che ha bisogno del crogiolo. E il valore di una persona non dipende dal rumore che fa, ma dall’esempio che porge: non si vive con il sindacato clandestino dei pensieri autogestiti o nell’ipertrofia del privato, ma nella ricerca della verità che è sinfonica, sempre in una permanente ginnastica del desiderio. Con questo stile i diversi sguardi non dividono la luce. Ogni presenza al Marianum, più o meno prolungata, ci insegna che ciascuno di noi è un po’ la somma di tutti gli incontri, ma con un compito personale da svolgere e coloro che incontra aiutano a compierlo o glielo rendono ancora più difficile: sfortunato chi non sa distinguere gli uni dagli altri! Abbiamo imparato – come insegnava Armida Barelli così legata alla nostra storia – ad “arare le coscienze”, seminatori lungo la via con mano che non conosca riposo, dal momento che i desideri dei giovani danno ordini al futuro. Perché dare sempre la colpa ai giovani quasi fossero il pianeta degli svuotati o la generazione degli sprecati?  I giovani non sono vasi da riempire ma lampada da accendere. Benediciamo le persone che per brillare non spengono nessuno. Sono questi, tempi di sosia, ma nessuna è un avanzo di Dio, casomai una sua frontiera. Quando i giovani hanno una meta, anche il desiderio diventa strada. Del resto “Creatura” è un participio futuro e a chi sa attendere succede sempre qualcosa.  Ancora Armida, quando doveva arrancare con fatica il pendìo della giornata e i guai si mettevano in fila come in processione, ripeteva: “Di fronte alla paura io faccio come lo struzzo: nascondo il capo sotto l’ala del Sacro Cuore”. Quel Sacro Cuore che proprio lei aveva tenacemente difeso già nel titolo del nostro Ateneo. Nella polifonia delle competenze e responsabilità, abbiamo imparato (Paolo VI) che “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o, se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni”. Forse per questo Simone Weil affermava: “Quello che mi fa capire se uno è passato attraverso il fuoco dell’amore divino non è il suo modo di parlare di Dio, ma il suo modo di parlare delle cose terrene”.

Siamo pure qui a chiedere perdono per quando nel tempo nervoso dello scambio globale, con furbizia studiata, ci siamo lasciati catturare dalla dittatura del nulla che con il baccanale delle sue esteriorità riempie il vuoto con l’inutile e lo confeziona, rimanendo così alla periferia della saggezza come dei senza fissi dimora del pensiero. A chiedere perdono per le nostre pigrizie travestite in una vita comoda e ripiegata, per quando abbiamo voluto essere visti solo perché non sapevamo vedere, per le nostre indifferenze (l’indifferenza è come la morte in abito da sera), per quando ci siamo illusi che agitarsi significa agire, per le manipolazioni preventive delle idee altrui, per quando ci siamo accasati nella mediocrità del frattempo, nell’epidemia dell’omologazione intuibile nei sorrisi di alleanza a interruttore, anziché affrontare l’ascesi del tempo e la disciplina della comunicazione, consegnandoci ad un’autogestione distratta dal proprio io minuscolo con i suoi desideri stonati. Collegati a una carovana di parole in un deserto di idee, facendo delle nostre giornate quasi somiglianti più ai premi di una lotteria che ad atti di creatività e a sforzi di dedizione. Siam pure qui a chiedere perdono per quando abbiamo amato parlare di niente come l’unico argomento in cui sapevamo tutto, per quando – nella centrifuga delle urgenze – arrischiavamo di scambiare la propria calotta cranica per la volta del cielo, per quando la letizia della semina è stata avvilita dall’ansia del raccolto, per quando ci siamo dimenticati che gli applausi non sono il termometro della verità. Un successo immediato spesso è un insuccesso travestito: l’unico posto in cui successo viene prima di sudore è il dizionario di italiano. Siamo qui a chiedere perdono per quando abbiamo perso la fame di Dio, di Lui che ci seduce non per oscurare la ragione, ma per una nozione riassuntiva di un’esistenza dedicata, dove lo studio si fa esercizio spirituale prima di carriera sognata, diventa un metterci all’opposizione ma non degli altri, bensì delle nostre grettezze, dei nostri ripiegamenti e, se necessario, appunto delle nostre ambizioni.

Con verginità di sguardo e di pensiero ripartiamo per dare alla nostra vita la pazienza di un’opera d’arte, per esercitare la “carità intellettuale” (G.B.Montini). E poi non dimentichiamo: il nostro collegio si intitola a Maria. Il Cardinale Martini, inaugurando la nostra cappella nel 2001, ci diceva che questa stupenda Donna credente, da quando il cielo la assunse a tempo indeterminato, allevia il cammino e rende tutto più facile. In Lei, stupenda Donna credente, custode dello stupore mattinale del mondo nuovo, il cammino di Dio si rivela compiuto in figura materna dentro i nostri confini. Ma allora siamo certi che il più bello ha ancora da accadere. Avendo ciascuno e ciascuna di noi un cuore tarato sulla totalità, chi scommette sui ripidi sentieri del Vangelo, indovina la vita, diventa polline di Dio, scrive boccioli di storia.

a cura di Don Giorgio Begni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rina mi guardò con la faccia del conte Ugolino, come un lupo di gubbio prima della conversione sembrava provenire da una terra dove è amaro anche il miele scalpellata dalla prova una specie di spaventata ammirazione calato come un palombaro in un mondo che non conoscevo Gino bartali. Il bene si fa non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca

 

Dedichiamo questo salone alla dottoressa Caterina (Rina) gornati, direttrice dal 1995 al 2000 e successivamente presidente dell’Associazione MEA. Chi l’ha conosciuta sa del suo cuore plurale e delle sue mille finezze come anche la sua presenza materna non certo sdolcinata, il suo non arrendersi di fronte alle difficoltà, le sue poche certezze ma declinate nei singoli come sa fare l’Amore. Persona al primo impatto sanamente diffidente, fu così anche per me), ma poi capace di molte confidenze

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