“Tutto quello che mi fa soffrire lo scriverò”

Recensione di “Corpo Estraneo” di Annarosa Macrì

Se i libri fossero tele prima di diventare quadri dell’immaginazione, per rendere le sensazioni che “Corpo Estraneo” regala, si userebbero tutti i riflessi dell’argento, le ombre del bianco e l’intensità del rosso. Le lacrime di una soddisfatta nostalgia apparirebbero così pirargirite, gli anni che passano lascerebbero i capelli canuti e il cremisi che accende idee e le rende protesta sfumerebbe persino il dolore di un amore infranto. Questo libro è tutto questo e molto altro: è un viaggio e come tutti i viaggi ha una partenza e un arrivo, un ritorno che si fa eterno nella memoria. Ha forme ricurve che lasciano trasparire l’ampiezza dei pensieri, ma non restituisce contorni netti perché sfumati da una fioca luce, come nei sogni. Ciò che si legge è dunque impresso negli occhi di chi sa guardare all’esistenza come si guarda il cielo: senza pregiudizi. Ma è anche udito: dal passato sgorgherebbero suoni, melodie inscindibili dalle immagini. E poi una vecchia foto sbiadita dal tempo, con i bordi bruciati e il retro increspato come se l’acqua l’avesse bagnata e poi il vento asciugata: forse una pioggia sottile di un meneghino pomeriggio d’inverno, o forse una lacrima di consapevolezza.

Bianca, la protagonista, è una cronista. Riceve i colori dalle donne che incontra, vive due vite e davvero nessuna. Interno ed esterno sono due entità separate, è un’estranea in casa sua. È lama setosa e velluto tagliente. Corre e si guarda indietro. Rallenta, poi nulla. Cammina adagio nei suoi ricordi perché sa che nel passato ha vissuto, ha vissuto veramente. Così, a cavallo dei suoi errori e delle sue conquiste scappa via, galoppa verso la catarsi. Ad occhi chiusi si lascia trasportare dalle storie altrui, condivide con un’empatia tipicamente femminile le vite degli altri verso un orizzonte dei ricordi, in cui il sole non è ancora tramontato.

La scrittura è la sua salvezza e la sua condanna, è un esercizio di razionalizzazione dei pensieri, di distensione e di nuovo apprezzamento di ciò che si è vissuto, ma è anche causa di infelicità, figlia della consapevolezza che la vita è limite, e l’esistenza è superamento. Le parole si fanno armi, lunghi coltelli che causano ferite e scavano dall’interno fino a giungere all’anima: quante volte quando il sole cala e le membra si fondono, si sente l’eco dello strazio che l’aria pietosa trasporta con sé. Si librano nel vento i giorni che furono, si dissolvono le glorie che non saranno mai vane perché intrise del sangue della lotta e la malattia diventa occasione di ricordo. Bianca restituisce la vita alla sua bellezza universale, la ripone su un altare per guardarla da vicino con la distanza del tempo e il disincanto del dolore. Ha scoperto un corpo estraneo dentro di sé, un corpo che non è il suo, ma che le regala la realizzazione di essere stata fino ad allora involucro, contenitore di storie, sorrisi e vicende altrui.

Bianca si sdoppia, è una, è tanti, è nessuno. Non si adatta e conforma mai, rimane fedele al lungo viaggio che ha percorso e che chiama “vita”. È tra due secoli e due terre lontane: in mezzo c’è il Sessantotto, la rivoluzione, il cambiamento, la Calabria (sua terra d’origine alla quale guarda con affetto) e Milano. Passeggia per le sue strade affollate, dove si ha quasi la sensazione che la vita non si fermi mai. Eppure eccola la grande città, sempre lì immobile, taciturna eppure così rumorosa. Rinasce ogni mattina, pulsa come un cuore. In un mondo che tende alla ricerca della tranquillità, all’ anestesia del rischio e al sonno della vita, la Milano di Bianca è dinamica, sorprendente, imprevedibile. Si fa nuvola, si dissolve, cambia e si arrabbia. Milano non è grigia. Milano è il luogo della rivoluzione di una generazione, la città del cambiamento e degli studi, binomio inscindibile. Sì, perché Bianca ha vissuto gli angoli di Via Sant’Agnese, Corso Magenta, piazza Sant’Ambrogio dove sorge la sua Università e Via Necchi, sede del suo amato collegio: il “Marianum” che ricorda sempre come una delle esperienze più belle della sua vita, nonché luogo delle migliori amicizie e agorà di idee rivoluzionarie quanto scomode. Connubio di crescita e maturazione al quale, quasi inconsciamente, ritorna anche solo con la mente. Bianca è tutto questo e molto altro: è i posti in cui è stata, è le persone che ha incontrato, è la somma esatta delle esperienze che ha vissuto e che hanno lasciato un segno indelebile sulla sua pelle.

Bianca è il rosso: sangue delle ferite, colore del cambiamento, inno all’amore e avvolgente divenire.

Di Chiara De Stefano

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