Il cinque ottobre duemila-diciannove viene battuta all’asta per più di un milione di dollari l’opera di Bansky “la ragazza con il palloncino“. Il martello del battitore ha appena sancito la fine dell’asta quando la filiale di Sotheby’s a Londra si riempie di stupore.
Il quadro si è autodistrutto.
Immediatamente la notizia fa il giro del mondo, per un istante un evento inquadra, inchioda una società intorpidita. Questo torpore è paradosso, perché la nostra è un’inerzia costituita dai verbi dell’azione: fare, produrre, guadagnare, correre, vincere.
La nostra è l’inerzia della velocità, l’indifferenza della sovrabbondanza di stimoli.
Bansky interroga, provoca.
Per una volta ci conferisce la possibilità di fermarci. Se il mondo continua a girare non è importante, perché siamo immobili, con i riflettori accesi sull’inerzia della velocità.
La nostra mente può andare a fondo e indagare su quanto sia legittimo lucrare sul sentire di un artista, perché è di questo che si tratta.
Chiunque apra un libro di storia dell’arte trova un riassunto di tutto quanto è umano: miseria, nobiltà, bello, truce, disadorno, banale, seducente, squassante, silenzioso.
Cosa spinge l’uomo a portarsi fuori di sé?
Probabilmente la semplice possibilità di sapere che non si è soli, che qualcuno sente, spera, teme e ama proprio come noi.
L’arte, dunque, seppur possa appartenere a chiunque sia, rimane qualcosa di intimo, in cui si mette in gioco quello che ci appassiona, inteso nel senso più etimologico del termine: quello per cui siamo disposti a patire ovvero in ultima analisi- semplicemente- quello che amiamo.
Il mercato dell’arte potremmo afferire, dunque, che consista nella monetizzazione del sentire umano. Il grande rischio in cui si incappa è quello di snaturare l’obiettivo della produzione artistica, il cui unico scopo diviene la vendita.
Questo pericoloso meccanismo è una sagoma nel labirinto degli specchi: il sentire dell’artista costantemente snaturato dai volubili desideri di una società in corsa.
Chi concepisce l’opera diviene “censuratore” di se stesso nella proposta di un’arte che annulla la complessità e la contraddizione dell’anima, perché quello che importa non è che sia vera, ma -piuttosto- che piaccia.
In una proposta d’impostazione del genere l’opera d’arte e il selfie in bikini sono avvalorate in egual maniera, con la discriminante che in un caso l’approvazione viene trasformata in denaro, nell’altro caso in likes.
Entrambe sono regolate dal principio del consenso in cui il sentire del singolo è degno di essere solo se riconosciuto da un consistente gruppo di altri. Si crea così un sistema che snatura l’arte in quanto linguaggio libero, svincolato dalle pretese della società.
In questo oggi caratterizzato dall’immediatezza dell’immagine a fermarci è un uomo senza volto, che nel non avere un’identità la afferma che del quadro andato distrutto fa la sua più grande opera, che di uno dei sistemi economici che smuove le più ingenti somme di denaro fa un enorme non-senso.
Quotidianamente, costantemente incappiamo in innumerevoli quantità di stimoli.
Quello a cui si ambisce è essere costantemente aggiornati, connessi, per non restare tagliati fuori, ma- ogni tanto- un piccolo miracolo accade e ci trascina fuori dalla rete.
Ci lascia soli, come in ogni istante di reale scoperta.
Il cinque ottobre, nella filiale si Sotheby’s di Londra, ognuno è stato trascinato fuori dalla sua comoda, superficiale rete di relazioni e di stimoli; necessariamente costretto ad andare nel profondo, a chiedersi se nel presenziare ad un’asta di opere d’arte davvero non ci sia nulla di male.
Angela Macheda
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