Calvino scriveva che «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire», una lettura che, nel ripetersi, si mantiene sempre innovativa a se stessa.
Nel suo non esaurirsi è da ricercare il segreto di un’opera immortale, della quale non solo l’uomo non si stancherà mai, ma neppure smetterà di sentire il vitale bisogno di farla nuovamente sua.
La medesima logica regola il reiterare ciclico dei riti liturgici della Chiesa Cattolica: formalmente uguali a se stessi, ma instancabilmente rigenerativi per un animo, quello umano, che non si allontana mai troppo dai peccati in cui inciampa.
Ecco, dunque, il bisogno di tornare costantemente ai modelli di vita e alle iconografie di cui la fame di senso non riesce ancora a saziarsi: Leonardo da Vinci e la sua Ultima cena compaiono, di nuovo, in questo Giovedì Santo sotto i nostri occhi.
Già al tempo, il tema che vedeva Gesù e i Dodici riuniti nella celebrazione della Pasqua ebraica non era nuovo – diverse trattazioni si erano susseguite nel corso del Quattrocento in Italia –.
Il genio di Leonardo, infatti, sta nell’aver sconvolto ogni consuetudine. Giuda non è più collocato di fronte a Gesù, isolato dagli Undici, ma, assieme agli altri, diverge dal Messia in un moto ondoso, che divide i commensali a gruppi di tre.
Le parole del Cristo risuonano in tutta la sala: «uno di voi mi tradirà» e si diffondono angoscia e sgomento. Gesù conosce il cuore degli amici a cui sta parlando e di fronte allo stupore di chi lo tradirà – tutti, nessuno escluso – risponde con la tenerezza di un amore che non si ferma neppure davanti al tradimento, arde fino a dare la sua vita.
Leonardo, dunque, non tratta di un evento di fede lontano, ma di un atto ripetutamente umano: il tradimento di un amico. Cristo è solo, eppure in mezzo ai compagni con cui è solito passare le giornate; l’ipotesi di un’offesa nei suoi confronti è accolta con disgusto, eppure Lui stesso conosce già l’animo di chi, seduto ora accanto a lui, la perpetrerà.
Difronte alle corruttele di questi cuori, con il terrore nel petto perun destino che sente già avverarsi, Gesù non condanna, ma ama attraverso un patire umano, con una tenacia divina.
Ed è così in eterno, con l’immortalità di un’opera che non esaurisce mai il suo messaggio, ma rinnova il suo atto di salvezza «come i baci degli innamorati» – citando il nostro caro don Giorgio – trovando nuovo vigore, come ad ogni primavera.
A cura di Alice Dusso
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