«E poi? »
«E poi scannaru a me figghiu»
Queste sono tra le parole più crude pronunciate da Felicia Bartolotta Impastato durante il processo per l’omicidio del figlio, Peppino Impastato: vent’anni di lotte, fatica, disapprovazione e minacce perché il processo fosse eseguito e venticinque perché il capo mafioso Gaetano Badalamenti, mente dell’omicidio e boss di Cinisi, venisse condannato.
Ma chi era questo Peppino, questo “piccolo siciliano di provincia”ucciso la notte tra l’8 e il 9 maggio 1978, poche ore prima che a Roma venisse scoperto il cadavere dell’Onorevole Aldo Moro?
Tutti gli indizi delineano la figura di un terrorista, esploso insieme alla bomba che stava posizionando sulla ferrovia. In casa sua venne persino ritrovato un biglietto, che recitava “voglio abbandonare la politica e la vita”. Un suicida, dunque.
Il fratello Giovanni, la madre Felicia e gli amici di Peppino, tuttavia, non si sono arresi, continuando, con coraggio, a lottare, affinché venisse smentito il suicidio e si dimostrasse la matrice mafiosa dell’attentato.
L’intervento del Giudice Rocco Chinnici, determinato a scoprire la verità, nonostante la scomparsa dei documenti processuali, sembrava aver riacceso una flebile speranza, ma anch’egli, il 29 luglio 1983, morì, insieme agli uomini della scorta, a seguito dell’esplosione dell’automobile su cui viaggiava.
“Niente resiste qui”.
Sono parole tratte dal celebre film “I cento passi”. Peppino Impastato ha dedicato la sua intera vita alla difesa della Bellezza, consapevole del fatto che per distruggerla basta un attimo e, soprattutto, che i siciliani non se ne rendessero conto.
Nel 1976 Impastato costituisce il gruppo “Musica e cultura” e, l’anno successivo, fonda Radio Aut, che diviene in poco tempo il principale strumento di denuncia dei crimini e degli affari mafiosi di Cinisi, il paese in cui è nato e cresciuto.
Perché Peppino è stato ucciso pur essendo innocente?
“Innocente: esente da colpa dal punto di vista morale o giuridico, non colpevole”.
E, invece, per molti Peppino Impastato era colpevole, colpevole di diffondere la cultura, la conoscenza, la consapevolezza; colpevole di essere giusto, a tal punto da essere ritenuto sbagliato.
Com’è sottile il filo che separa la logica dall’evidenza.
In fondo, Peppino non aveva mai visto il boss Gaetano Badalamenti, detto anche “Tano seduto, viso pallido, esperto di lupara (fucili) e traffico di eroina”, commerciare la droga. È,quindi, logico affermare che le sue accuse siano infondate; ma è evidente che a questo modo di pensare, a cui siamo abituati, non facciamo più caso. È cortesia.
Peppino ci aveva avvertito: «Ci dobbiamo ribellare prima che sia troppo tardi, prima di abituarci alle loro facce, prima di non accorgerci più di niente».
“Noi siciliani la mafia la vogliamo. Ma non perché ci fa paura, perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace. Noi siamo la mafia”. Queste frasi, così sconcertanti, sono state pronunciate dall’amico fidato di Peppino, Salvo Vitale, alla radio, poco dopo l’omicidio e trovano triste fondamento negli interminabili anni trascorsi prima che Gaetano Badalamenti venisse condannato all’ergastolo, prima che tutti si convincessero che Peppino non fosse né un impostore, né un terrorista suicida, né tantomeno un illuso, un povero ingenuo, un nuddu ammiscatucu niente, ma un ragazzo, come tutti, con la voglia di cambiare le cose, di scuotere la coscienza della gente e aprirle gli occhi. Un giovane siciliano determinato a liberare un’isola dalla sua più grande condanna: accontentarsi della mediocrità.
A cura di Annalisa Gurrieri
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