Il 1974 fu, a ben vedere, un anno cruciale per la storia: cronologicamente è posto tra il 1973, anno della tristemente celebre guerra del Kippur che aveva fatto triplicare il prezzo del petrolio e l’introduzione dell’IVA in tutta Europa (in Italia al 12% e in Germania 11%) e il 1975, anno dell’introduzione della Scala Mobile, cioè un sistema di indicizzazione dei salari volta a difendere i ceti più deboli facendo recuperare mese per mese l’inflazione direttamente in busta paga.
Quello del 1973-1974, fu, quindi, il crollo ideale e sociale di trent’anni di sviluppo economico tumultuoso post-bellico che avevano radicato nella mentalità comune la convinzione che l’economia ormai avesse trovato la ricetta di una crescita spasmodica, che le generazioni successive avrebbero goduto per sempre di maggior benessere rispetto a quelle precedenti, che la crisi fosse il retaggio di nostalgiche epoche passate.
Ma cosa accadde davvero?
Sicuramente, eventi come l’arresto del boss mafioso Luciano Liggio, le dimissioni del Presidente Nixon, la fondazione de Il Giornale a cura di Indro Montanelli e l’abrogazione della legge sul divorzio (dove il “no” vinse con il 59,3% e la legge Fortuna-Baslini restò in vigore), segnarono profondamente l’opinione pubblica e il sostrato sociale del nostro Paese, e non solo.
Ciò che, però, rese quell’anno un vero e proprio spartiacque politico fu l’estremismo nero ed alcune forze reazionarie che decisero di alzare il tiro e portare la Nazione sull’orlo del colpo di Stato, colpendo il Paese con una serie di attacchi che incrementarono la paura tra le persone: la strategia della tensione toccava il suo apice.
In un simile contesto storico e alla luce di ciò che accadde anche nei decenni successivi, questioni come povertà, disoccupazione e consumismo appaiono quasi le dirette conseguenze di un retaggio culturale mediocre e banale e di un sistema che già stava vivendo gli anni più pesanti della nostra storia: gli anni di piombo.
Ma ciò che appare quasi un tratto in comune con la società contemporanea, sembra proprio essere un senso generalizzato di indistinto politico.
Ma cos’è la destra? Cos’è la sinistra? Canterebbe Giorgio Gaber.
Oggi, e in quei tempi più che mai, il labile confine delle ideologie finiva per assottigliarsi alle argute logiche di potere che causavano, e causano, un’emiplegia mentale. E non si tratta di un semplice e superficiale giudizio di generalizzazione delle cose complesse, bensì divide et impera, forse un cinico giudizio sfiduciato. A fare, però, la vera differenza, fra quei tempi e questi, è il disincanto verso alcune macrovariabili economiche. Per cui appare chiaro che se prima la povertà veniva definita come un’ideologia politica ed economica volta a godere dei beni minimi e necessari e con una certa accortezza durante l’atto d’acquisto, adesso questa pare essere semplice buon senso, qualcuno lo definirebbe forse minimalismo o parsimonia.
La spiegazione è semplice: solo se si è di media statura, si riconoscono i giganti. Così infatti accade oggi a differenza di ieri: il cosiddetto “prosumer” moderno non si limita all’acquisto e al consumo. Egli, da soggetto passivo, è diventato attore attivo, ovvero fruitore e produttore di contenuti e conoscenza in rete; è protagonista indiscusso del marketing e di un mondo di beni e servizi potenzialmente infinito. Liquido, senza forma né confini, cambia le sue attitudini sulla base di variabili contingenti ed assume le fattezze del momento che dura meno di un secondo. Come può allora oggi essere “povero” se non chi non ha spirito? La cultura consumistica, e in particolare la società dei consumi, che dalla fine degli anni ottanta ad oggi ha cambiato radicalmente il modo di fare e intendere l’economia, ha dato la possibilità alla classe media di farsi strada e di assottigliare sempre di più i confini tra le classi sociali. Come risultato dunque, non è considerato “povero” chi conosce le cose per necessità, ma chi, piuttosto, si rifiuta in partenza di conoscerle. Non è tanto una questione di reddito, quanto di un insieme di valori. Anche un milionario sarà allora povero se non dà valore alle cose: chi è, in fondo, più ricco di un povero di mezzi? Chi meglio di lui sa esattamente cosa significa possedere e usufruire di un bene? Non a caso, le cose assumono un valore maggiore quando le si smarriscono. E con “valore” si intende il personalissimo interesse in termini di uso e considerazione che un individuo attribuisce ad un bene o ad un servizio.
L’individuo è diventato un ingranaggio dell’immensa macchina burocratica delle organizzazioni moderne, alienato dai beni, manipolato dall’industria e dalla pubblicità, esposto a pericoli ecologici, psicologicamente depresso, isolato e angosciato, convinto e disposto a credere che nella vita non esistono altre soddisfazioni né altre gratificazioni al di fuori dei beni di consumo a cui si aggrappa come Linus alla sua coperta. D’altronde egli pensa di essere quello che gli altri gli trasmettono che egli sia e per questo si preoccupa di apparire.
Nel nauseante mercato del superfluo, la dittatura sociale impone che per ogni oggetto usato, ce ne siano almeno altri due da desiderare, volere, ottenere, buttare. E così in avanti, come una spirale che si avvolge su stessa, il filamento di DNA dell’istantaneo prende forma e si annida sulle cose come la polvere tra le fessure più strette. Quale sarà l’epilogo della storia solo il futuro potrà dircelo, stante che il passato non è un cimitero degli errori, ma forse l’appannaggio di esperienze vissute da un’umanità rigenerata che ha sempre tanto e ancora molto da imparare.
Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza.
Di Chiara de Stefano
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