Nelle ultime settimane il rilascio di Silvia Romano è stato al centro della cronaca, ma non ci dilungheremo in questa sede sui dettagli che sicuramente saranno già noti. Come purtroppo ben sappiamo, questo evento è stato accompagnato da una aberrante valanga di commenti sui social caratterizzati da un odio dilagante e una rabbia smisurata.
Ma quali sono le reali motivazioni di tutto questo proliferare di parole sulla vicenda? Perché tutti ci siamo sentiti in dovere di commentare ed esprimere la nostra opinione a riguardo?
Le motivazioni sono ben radicate nel nostro orizzonte culturale: il nostro sguardo, anche se non per una deliberata scelta, si può considerare maschilista e occidentale a seguito di secoli di storia che hanno posto questa come condizione di normalità. Di conseguenza riteniamo “altro” tutto ciò che si pone in opposizionee, in funzione di questa alterità, ci arroghiamo il diritto di poter giudicare, indagare e deliberare. A rafforzare questa idea, è il fatto che ciò che abbiamo a disposizione di Silvia Romano è solo la sua immagine: nessuno di noi la conosce davvero, ci viene propostasolo una minima parte della sua esperienza, mediata e filtrata e poi esposta alla mercé di chiunque.
E così l’immagine di Silvia Romano ha disatteso totalmente le nostre aspettative: non abbiamo visto il volto emaciato, distrutto e stanco di una prigioniera; al contrario ci si è presentata davanti una ragazza sorridente e in ottima forma (almeno per quanto possiamo saperne). Ha totalmente rovesciato le nostre convinzioni riguardo una cultura diversa, in questo caso quella islamica. Ma questo non basta: ha addirittura abbracciato questa ideologia.
Tuttavia c’è dell’altro: il secondo problema è che Silvia Romano sia proprio una donna. Purtroppo sempre alla luce dello sguardo maschilista e occidentale (sia ben inteso che questo sguardo è esercitato a prescindere dal sesso dell’osservatore) davanti all’immagine di una donna ci sentiamo in diritto di pronunciarci, di ricostruire il suo percorso, di cercarne un senso (conforme alle nostre idee) per poterla collocare all’interno del nostro immaginario di normalità. Se fosse accaduta una vicenda simile ad un uomo, ci sarebbe stato lo stesso terremoto mediatico? Gli utenti del web si sarebbero allo stesso modo improvvisati ginecologi ed esperti psicologi, speculando su una presunta gravidanza o sulla Sindrome di Stoccolma?
Probabilmente in questo caso dovremmo solo accogliere la lieta notizia e sospendere ogni giudizio.
A cura di Lidia Margiotta
Immagine in evidenza a cura di Mauro Biani
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