Che cosa saremmo disposti a sacrificare per lavorare? Questo è l’interrogativo che percorre come un fil Rouge “7 minuti”.
Ispirato ad una storia vera, Stefano Massini prima e Michele Placido poi, cercano di analizzare le incertezze del mondo del lavoro visto dall’esterno. Talmente attuale nella sua drammatica autenticità, il film mira a scatenare una riflessione sul precariato, facendo luce su un tema tanto delicato e scottante come quello della manodopera femminile, in un contesto in cui per decenni la lotta operaia ne ha fieramente portato avanti le rivendicazioni: la fabbrica. Le protagoniste che si inseriscono in questa cornice sono undici donne, giovani e anziane, con storie e idee diverse e simili, che porteranno loro a scontrarsi e allearsi le une con le altre. Capire quale sia la soluzione migliore non è semplice, specie se potrebbe determinare la perdita del posto di lavoro per le altre trecento lavoratrici che attendono fuori dalla fabbrica.
Il film si sviluppa quasi del tutto all’interno di un unico ambiente, ponendo delle domande ben precise a cui non solo le nostre protagoniste, ma in primis lo spettatore non può proprio rifiutarsi di rispondere: che cosa sei disposto a fare per lavorare? E fino a che punto ti spingeresti per farlo?
L’industria tessile, infatti, per evitare la chiusura, è stata rilevata da un’azienda francese, a cui è stata ceduta la maggioranza delle azioni. La condizione che i nuovi proprietari impongono, e a cui le lavoratrici devono rispondere con un sì o con un no, è quella di rinunciare a sette minuti al giorno della pausa pranzo di quindici minuti spettanti a ciascuna. E cosa saranno mai sette minuti in meno pur di evitare un licenziamento? Vale davvero la pena di discutere per sette miseri minuti in un’ottica in cui chi ha un lavoro, a qualunque tipo di condizioni debba sottostare, è considerato fortunato? Queste sono le considerazioni espresse immediatamente dalle lavoratrici, specialmente da quelle più giovani e provenienti da Paesi stranieri dove il termine diritto non si coniuga mai con la parola lavoro. Donne che arrivate in Italia si sono già stupite di avere diritto a una pausa pranzo e di cui non comprendono la necessità visto che, come dice una giovane operaia africana con un sorriso ingenuo, loro possono benissimo mangiare con una mano e lavorare con l’altra. Sono donne semplici, alcune poco più che bambine, che vedono l’Italia con l’occhio di chi è arrivato non possedendo altro se non la propria storia e che viene accolto da braccia materne, rassicuranti, che hanno tanto da promettere.
Saranno soprattutto loro l’ostacolo più alto che dovrà scavalcare l’anziana sindacalista Bianca, portavoce di tutte le donne in fabbrica, cercando di far capire a chi vede l’Italia come una terra promessa come in realtà si tratti di un paese consumato giorno dopo giorno dai tanti, troppi, “Zio Paperone” di turno, che mirano a spremere ogni risorsa rimasta per tramutarne ogni singola goccia in denaro sonante. Proverà ad aprire loro gli occhi tramite le testimonianze delle altre colleghe, di un’amica di vecchia data che come lei ricorda che trent’anni prima la pausa pranzo era di trenta minuti e che nemmeno a loro in quel momento rinunciare a pochi minuti fosse sembrato un sacrificio eccessivo pur di mantenere il posto, invitando a non commettere adesso lo stesso errore, fino ad arrivare a una giovane impiegata (ex operaia) invalida dell’azienda, che racconta di come sia stata costretta, per non essere licenziata, a dichiarare che l’incidente che le ha fatto perdere l’uso delle gambe se lo fosse procurato lei stessa e non i macchinari obsoleti e difettosi che non venivano revisionati da anni; giungendo alla fine alla testimonianza di una giovane operaia costretta a subire ogni giorno le attenzioni morbose di uno dei datori di lavoro che non riesce a tenere le mani a posto, ma di come sia troppo spaventata dalle conseguenze per fare qualcosa, e come biasimarla in un contesto dove gli organismi a cui si dovrebbe ricorrere (quali il Consiglio Nazionale della Parità) possono intervenire solo su istanza di chi subisce, che non è certo incentivato a farlo dove non si abbia la certezza di poter evitare un demansionamento, un trasferimento, un licenziamento o una qualunque altra rappresaglia da parte del datore.
Sono donne con storie e vite estremamente diverse ma allo stesso tempo fin troppo simili, accomunate dal fatto che tutte loro hanno già rinunciato a qualcosa per mantenere il posto di lavoro, qualcosa a cui si aggrapperà Bianca per far capire loro che non possono votare sì, non possono permettersi di rinunciare a quei sette minuti, perché quei sette minuti sono un simbolo, un’icona, sono la dignità umana che spetta loro in quanto lavoratrici e che viene considerata sempre meno in un contesto sociale dove ormai il rapporto sindacale è ridotto a poco più che vuota ritualità. A lei si opporrà Angela, che esamina la questione da un punto di vista concreto, con lo sguardo di chi non ha tempo per badare a principi e moralismi perché i libri di sua figlia non si possono pagare con la dignità e perché nemmeno le trecento lavoratrici che attendono all’esterno della fabbrica con la dignità possono comprarci il pane. La questione così, all’inizio apparentemente semplice, diventa sempre più spinosa, costringendo le operaie a chiedersi se quello che guardano e che credono essere cielo non sia in realtà un mare che sta per cascare loro in testa e sommergerle.
Il film prosegue a un ritmo incalzante, senza tregua, mettendo a fuoco i punti di vista di ciascuna delle undici operaie, portando lo spettatore all’amara comprensione che ciò che può sembrare un traguardo a volte non è altro che una vittoria di Pirro e alla consapevolezza che qui si delinea la più grande disfatta dell’uomo moderno: laddove orgoglio umano e diritto al lavoro, fortemente tutelato dall’articolo 4 della nostra Costituzione e dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, non riescano a conciliarsi nel contesto concreto e a trovare protezione anche da un punto di vista pratico, la rinuncia di uno dei due porta sempre inevitabilmente al venir meno dell’altro.
A cura di Ludovica Schembari
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