La filosofia del tempo

Le radici del tempo sono radicate fin nella filosofia presocratica. Per Parmenide, la realtà è immutabile e atemporale, mentre quel che si presenta sotto il velo dell’apparenza ora è e ora non è, sottoposto al tempo. Eraclito fa invece del divenire il principio di ogni cosa e sostiene la temporalità come elemento che appartiene all’essere stesso. Queste originarie posizioni furono la base di una lunga serie di tesi successive, fino a quelle dei filosofi a noi più vicini.

Per Kant lo spazio ed il tempo sono due forme assolutamente a priori o intuizioni pure che prescindono dall’esperienza e rappresentano le condizioni soggettive e necessarie dei fenomeni.
All’interno della Critica della ragion pura (1781), nella Estetica trascendentale, presenta il tempo non solo come senso dello spazio interno, ma anche come forma universale della conoscenza. «Il tempo non è un concetto empirico ricavato dall’esperienza: a priori, a fondamento, una rappresentazione necessaria, che sta alla base di tutte le intuizioni.»

Dopo aver preso le distanze da filosofi che lo hanno preceduto, come Locke, Newton e Leibniz, Kant sintetizza la propria concezione del tempo nelle formule di “realtà empiriche” ed “idealità trascendentali”. Il tempo diventa, quindi, la condizione trascendentale del darsi dei fenomeni.

Nell’Analitica dei principi viene invece trattato come schema trascendentale: si tratta del terzo termine, omogeneo da un lato con la categoria e dall’altro con il fenomeno e che rende possibile l’applicazione di quella a questo. Il tempo fornisce così la condizione per una rappresentazione sensibile, una sorta di monogramma dell’immaginazione pura a priori, detta produttiva.

Hegel sintetizza dialetticamente la dimensione oggettiva e quella soggettiva del tempo con la coscienza assoluta, la coscienza che si identifica con tutta la realtà, raggiungendo la piena consapevolezza della propria infinità ed assolutezza.
Per il filosofo è una pura convenzione attribuire al tempo il valore delle tre dimensioni di passato, presente e futuro, le quali «sono necessarie soltanto nella rappresentazione soggettiva, nel ricordo o nel timore o nella speranza». Nel tempo metafisico non s’invecchia e non si ha bisogno di ricordare alcunché, poiché si è sempre presenti a se stessi, infatti il tempo non ha tempo, tutto è concentrato nell’attimo che è e non è.

Se davvero Kronos produttore di tutto e divoratore dei suoi prodotti, il rischio è che alla fine non rimanga nulla, nemmeno lo stesso Kronos, che finirebbe col divorare persino se stesso. Per questo motivo Hegel precisa che sebbene siano finite le cose nel tempo, il tempo è eterno: il tempo non finisce al finire delle cose, proprio perché l’eternità gli è intrinseca.

Per Kierkegaard l’unica temporalità possibile è quel divenire che noi stessi siamo e che la coscienza qualifica come tempo. La temporalità è “successione infinita” in cui l’istante è destinato a tradursi in una “parodia dell’eternità”. Il “momento”, nella sua astrazione dal passato e dal futuro, cela in sé la presunzione estetica di fare del finito il tempio dell’eterno, ecco l’errore tragico del Don Giovanni. Lo stadio estetico è infatti

quello di colui che vive nell’attimo, animato da un insaziabile desiderio di eccezionalità. Nel tentativo di arrestare il tempo, l’esistenza del seduttore si traduce in un infinito susseguirsi di attimi assolutamente privi di contenuto e quindi di godimento, per cui egli non vive “nel tempo”. Questa successione infinita si curva in un movimento che torna su se stesso, caratterizzato dall’incessante ripetersi del rito di un godimento che «non sboccia, ma si getta innanzi senza tregua, come d’un fiato».

Il “momento” è davvero fecondo la dimensione verticale di Dio si interseca con quella orizzontale dell’uomo. L’istante è un intreccio paradossale fra tempo ed eternità, breve e temporale, com’è ogni istante, è passato, com’è ogni istante nell’istante successivo. Eppure esso è l’istante decisivo, riempito dall’eternità.

Nietzsche, con il suo filosofare col martello, vuole scardinare tutte le certezze, scagliandosi contro tutta la cultura del passato e, di conseguenza, anche contro la sua struttura temporale che annienta il presente. Da questo suo intento deriva la concezione del tempo come teoria dell’eterno ritorno dell’uguale esposta nella Gaia Scienza, «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!».

Il passato sembra essere l’ostacolo più insormontabile per la sua irreversibilità, ma la volontà si rende redentrice del tempo. Il passato non rappresenta più un peso imposto dall’esterno, così che il macigno del “così fu” si sgretola nel “così volli che fosse”.
Il filosofo recupera una concezione precristiana del mondo, presente nella Grecia presocratica, ma si tratta di una “eternità” sferica piuttosto che circolare: bisogna stare dentro l’attimo, ma nel circolo il tempo scorre sul bordo della circonferenza; nella sfera tutto può ripetersi, sia ciò che è stato sia ciò che sarà perché il tempo scorre al di dentro di essa.

La teoria si è rivelata di difficile interpretazione, da alcuni interpretata come una certezza cosmologica, perché se è finita la quantità di energia presente nell’universo, ma è infinito il tempo in cui si dispiega, per il principio di conservazione finite saranno le sue manifestazioni e combinazioni; altri la considerano invece un imperativo categorico che prescrive di amare la vita e di agire come se tutto dovesse ritornare, rappresentando, da questo punto di vista, la celebrazione del dionisiaco.

Nietzsche recupera una visione del tempo tipica delle prime civiltà orientali e della Grecia. Per i greci il tempo era ciclico, costruito intorno al βίος, rappresentato dal ciclo delle stagioni, dall’alternarsi del giorno e della notte. Tale ciclicità è rappresentabile mediante archi ritmici, linearità ripetute nel ciclo, non a caso, nella lingua greca, c’è analogia fra βίος (vita) e βιός (arco), che differiscono foneticamente solo per uno spostamento di accento. Il tempo di Polibio si colloca così fra tempo ciclico e lineare, un tempo ritmico.

Polibio formula la teoria dell’anaciclosi (ανακύκλωσις) distinguendo tre forme di governo primarie (regno, aristocrazia, democrazia) e le rispettive degenerazioni (tirannide, oligarchia e oclocrazia): esse sono destinate a succedersi secondo un processo naturale (κατα φύσιν), che riproduce il ritmo biologico degli uomini (γένεσις, αΰξησις, ακμή, μεταβολή, τέλος).

Fra le cause che hanno permesso a Roma di conquistare in meno di cinquantatré anni quasi tutta la terra abitata troviamo la costituzione mista, che riunisce le migliori caratteristiche delle forme di governo. Essa rappresenta un momento di ideale perfezione ed immobilismo, sottratta alla confusione ed al disordine che l’evoluzione politica porta con sé.

Seneca dedica un’intera opera, il De brevitate vitae, alla trattazione del tempo, che si aggiunge alle riflessioni presenti anche altrove, ad esempio nell’epistolario ad Lucilium. Il titolo dell’opera è antifrastico, l’autore non vuole soffermarsi sulla brevità del tempo, ma sulla lunghezza della vita, se vissuta pienamente («vita, si uti scias, longa est»). Seneca distingue tre dimensioni del tempo, passato, presente e futuro, «tempus enim tribus partibus constat, praeterito, praesente, venturo», ma è indubbiamente più importante la distinzione fra dimensione quantitativa e qualitativa del tempo, fra tempus e vita, fra χρόνος e καιρός: solo il sapiens, liberandosi dai condizionamenti esteriori, dalle proprie passioni, così da raggiungere l’autosufficienza (αὐτάρκεια), potrà essere padrone del proprio tempo; il sapiens, a differenza degli occupati, riuscirà a dominare il tempo nella sua totalità, vivere e non semplicemente esse.

Si può dominare il proprio destino ed essere padroni del proprio tempo solo dopo aver accettato la morte, parte integrante e necessaria della vita: riusciremo a godere di ogni attimo della vita, poiché vivremo nella consapevolezza che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo.

L’errore commesso dagli occupati è proprio quello di calarsi in una dimensione ciclica del tempo, come se fossero destinati a vivere per sempre, ma «male vivunt qui se semper victuros putant». Il saggio, invece, preoccupandosi non di vivere a lungo ma di vivere abbastanza, vive pienamente il tempo, attimo dopo attimo, così che un solo giorno può esser condensato a tal punto da contenere l’intensità di una vita intera.

Nel momento in cui si impara a vivere tota vita, il tempo diventa eterno, che lo si voglia chiamare acronico o ucronico, perde i suoi connotati cronologici e diventa un unicum, salvando l’uomo dall’abisso in cui prima, sospeso fra passato e futuro, si sentiva sprofondare.

Anche Agostino di Ippona affronta il problema del tempo, procedendo verso la distruzione del tempo oggettivo e verso la definizione di un tempo come atto puramente interiore, vissuto dalla coscienza. Il tempo diventa soggettivo, computato in base alle impressioni personali provate e non gli eventi che le hanno destate, definito distensio animi:

«In te, animo mio, misuro il tempo. In te, ripeto, misuro il tempo. L’impressione che le cose lasciano in te al loro passaggio, e che rimane dopo che sono passate, è quanto io misuro presente, non le cose che sono passate per imprimerla; è questa che misuro, quando misuro il tempo.»
Agostino sostiene che passato e futuro non esistano, perché il primo ormai non è più, il secondo non è ancora, ma neanche il presente, perché se fosse presente non sarebbe più tempo bensì eternità: si tratta allora di un punctum che trascorre nel passato nel momento in cui diviene futuro. Il tempo sembra compiere un duplice movimento di contrazione e distensione, come se l’anima, per misurarlo, compiesse un movimento di sistole e diastole.

Nel romanzo A la recherche du temps perdu di Marcel Proust il tempo non è più quantificabile, misurabile e progressivo, ma acquista una risonanza interiore, viene vissuto dalla coscienza del personaggio, riflesso di stati d’animo, un gomitolo che cresce su se stesso, continuamente cambiando. Essa è tempo in movimento, una «durata reale che morde le cose e ci lascia l’impronta dei denti». Il tempo non viene pensato, non è frutto di un’analisi dell’intelligenza, ma intuizione, partecipazione piena alla vita ed al suo fluire, «non pensiamo il tempo reale, ma lo viviamo, perché la vita eccede l’intelligenza».

A partire da questa nuova concezione del tempo, Proust ritiene che solo con la memoria l’uomo possa cogliere le trasformazioni a cui il tempo sottopone fatti, persone e sentimenti, distinguendo fra una “memoria volontaria”, insufficiente (la capacità di ricostruire il passato nei suoi aspetti esteriori e meccanici, destinati a svanire nel ricordo cosciente) e una “memoria involontaria”, adeguata, la sola in grado di recuperare il passato facendolo rivivere insieme al vero senso della vita. Attraverso la memoria, il tempo perduto può divenire ritrovato, il che significa riappropriarsi della propria identità, diventare padroni del tempo e del nostro passato, la sola autentica forma di conoscenza.

Questa ricerca è regolata dalla legge delle intermittenze del cuore, che condiziona il fluire del tempo e la percezione che ne abbiamo:
«Le nostre percezioni sono senza dubbio impregnate di ricordi, percezione e ricordo, si compenetrano sempre, si scambiano dunque qualcosa delle loro sostanze mediante un fenomeno d’endosmosi.»

Le intermittenze del cuore sono un incontro che avviene per semplice caso con un oggetto che suscita la resurrezione del passato. Non si tratta di un’associazione di idee, ma tutto accade grazie ad una memoria che ruota fuori dagli ingranaggi dell’intelligenza e della logica. Per lo scrittore «è inutile cercare di rievocare il nostro passato, tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono vani. Il passato è nascosto al di fuori del suo dominio e della sua portata, in qualche oggetto materiale che noi non sospettiamo. Dipende dal caso che noi incontriamo questo oggetto prima di morire oppure non lo incontriamo.»

Leopardi, parlando della memoria, la definisce «la facoltà di assuefazione indipendente in molte parti dalla volontà, come altre assuefazioni materiali è fuor della mente. Il che si vede sì per molte altre cose, sì perché spessissimo una sensazione provata presentemente, ce ne richiama alla memoria un’altra provata per l’addietro, senza che la volontà contribuisca o abbia pure il tempo di contribuire a richiamarla. Così un canto ci richiama, quello che noi facevamo altra volta, udendo quello stesso canto…», con un funzionamento analogo a quella della memoria involontaria proustiana.

Il meccanismo del recupero del tempo attraverso la memoria è abbastanza conforme nell’uno e nell’altro, da una semplice sensazione presente, fanno scaturire per analogia un ricordo del passato.
L’uomo sente un gravissimo fascio in su le spalle, perché «siamo veramente oggidì passeggeri e pellegrini sulla terra: esseri di un giorno: la mattina in fiore, la sera appassiti, o secchi».

«Solo l’universo medesimo apparisce immune dallo scadere e languire», leggiamo nel Cantico del Gallo silvestre, quel che crede anche il pastore errante quando, rivolgendosi alla Luna, la definisce «eterna peregrina, giovinetta immortal». Il tempo soggettivo di Leopardi si scontrava con il tempo cosmico, distante dall’uomo e procedente solo verso la totale distruzione di sé. L’unico tempo davvero nostro è quello creato dalla memoria e dall’immaginazione in grado di ricucire la frattura fra il tempo vissuto e il tempo

assoluto. Proprio in ragione di ciò, Leopardi si preoccupò di definire una vera e propria teoria della rimembranza, per rievocare il passato e riviverlo come presente, perché «quasi tutti i piaceri dell’immaginazione e del sentimento consistono in rimembranza, che è come dire che stanno nel passato anzi che nel presente».

A cura di Laura Laus

 

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