Per una fenomenologia dell’inizio

E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter più sfuggire. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia… e una bella mattina… Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.

– F.  Scott Fitzgerald, Il Grande Gatsby (1925)

«Tentiamo di assumere il punto di vista della storia» si diceva all’entrata dei tedeschi a Parigi. Durante l’occupazione, alcuni intellettuali francesi hanno preteso di mantenersi imparziali ai fatti contingenti che non li concernevano. Che fosse o meno un modo per fuggire la verità del presente non è compito di chi legge la storia interrogare. Piuttosto, la questione di legittimità dell’eclettismo che ne deriva pone diverse riflessioni e implicazioni etiche circa il senso ontologico del presente. L’azione configura, nel pensiero occidentale, l’esistenza di uno spazio e di un tempo lineare; pertanto, il presente non è un passato in potenza, bensì il campo dell’azione stessa. Porsi al di fuori dei fatti è un modo di vivere il fatto ineluttabile in cui si è: tentare di dominare il dramma della propria epoca si rivela, pertanto, la mistificazione di una duplice dinamica di spettatori e protagonisti, servi e padroni, pensatori e invasori indiretti di una lontana primavera del 1940.

Gli esseri umani agiscono nel presente, contemplando il passato. E nella stessa contemplazione vi è una forma di rappresentazione estetica che definisce lo scorrere del tempo in una posizione privilegiata di distaccamento temporale. La naturalità di tale azione consiste nel cogliere la verità a-temporale della propria esistenza, capirne l’ambiguità della natura umana nella sua doppia veste corporale e spirituale, deteriorabile e salvabile. L’arguzia consiste nel non considerare distinte l’interiorità e l’esteriorità, tenendosi distanti dal vedere se stessi come fine ultimo subordinato all’azione. Qui i mezzi sfumano i propri contorni e diventano fini, la grandezza umana viene beffata da sé stessa e bombe atomiche, pandemie e guerre non sono altro che feconde inquietudini dello Spirito. Quelle stesse inquietudini che danzano prendendosi per mano sul corpo misoneista dell’uomo contemporaneo, si intingono del suo sangue di nascita e morte e lo lasciano inerme davanti a sé stesso, nudo tra i drappi stellati del cosmo.

Uscire da questi anni con la consapevolezza della storia è l’eterno compito del susseguirsi generazionale dal momento che il cambiamento coinvolge ogni istante dell’esistenza stessa. Persino ignorarlo è inutile, poiché si pone come forza attrattiva del movimento, dell’azione, del tempo. Credere poi all’esistenza di un’armonia superiore non vuol dire giustificare l’esecrabile, bensì dare un senso a tutto il resto, porlo come contesto limitante di infinite possibilità illimitate. Ed è qui che risiede la fenomenologia dell’inizio: passare dalla sensazione alla suprema esperienza conoscitiva, sforzarsi di renderla universale nella forma, eppure così malleabile nella sua sostanza. E se l’inizio è il presente delle possibilità, superare il passato è il sacrificio da scontare, dal momento che ricostruire non è mai creare ex novo, ma far gridare le ombre e le luci dei secoli in un canto eterno. Eppure, l’essere umano non vive solo di questo. Se nel Medioevo si era dimenticata così tanto l’antichità, che non vi era più interesse a conoscerla, nel Rinascimento, invece, si radicò il passato nella liberazione e nel suo significato umano. Che si viva allora senza arte, storia e cattedrali di un tempo, ma che si diffidi di un umanismo insensibile agli sforzi degli uomini nella storia. Che poi, in fin dei conti, non è che il solo modo per viverli appieno nel presente.

A cura di Chiara de Stefano

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Una risposta a “Per una fenomenologia dell’inizio”

  1. Lorenzo Marotta dice:

    Articolo denso di spunti. Dal ruolo degli intellettuali in momenti difficili – Il tradimento dei chierici è sempre in agguato – alla responsabilità di vivere il presente, perché, nota l’autrice, “il presente non è un passato in potenza, bensì il campo dell’azione stessa”. Il presente esige l’azione, il rischio della scelta, l’etica della responsabilità. Noi siamo nella storia facendo la storia, recuperando per intero L’Unità della persona, la sua corporeità e la sua spiritualità. Una scissione che è stata una sciagura per la cultura occidentale. Argomento di un possibile intervento. Ricordo solo il saggio illuminante di una donna filosofo Maria Zambrano, Filosofia e poesia. Anche qui complimenti a Chiara per la conoscenza e la consapevolezza di temi e questioni che guardano all’Oltre. Ammirato ancora per i contributi del blog delle splendide studentesse. Ho avuto ragione a scrivere dei giovani come artefici e protagonisti del romanzo L’alba che verrà. Un caro saluto lm

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