Una vita come tante

Una Vita Come Tante: un romanzo di un’immensità disarmante, in senso lato.
È immenso perché attanaglia l’attenzione per 1094 pagine di fila.
È immenso perché Hanya Yanagihara ha uno stile unico e fin troppo curato per essere il suo debutto nel contesto editoriale italiano.
È immenso perché più che leggere un libro sembra di seguire una serie tv, un romanzo corale che scandaglia le vite di quattro personaggi, tutti diversi, tutti difficili da dimenticare, con un passato, un presente e un futuro che ci vengono serviti su un piatto d’argento, la prosa della Yanagihara, difficile da rifiutare. Ne assapori qualche frase e non l’abbandoni più. Una narrativa splendida, che in un solo periodo fornisce tutti i dettagli necessari e non necessari, conferendo spessore alle vicende narrate e conciliandone l’immersione, l’immedesimazione o, meglio, l’empatia. Empatia. Termine cruciale se si vuole leggere questo romanzo.

C’è chi lo ama per gli stessi motivi per cui altri lo odiano. Pullula di dolore. Talvolta può essere considerato un’esagerazione e, a quanto affermato dall’autrice in un’intervista, sembrerebbe essere un effetto voluto. Certo, checché se ne dica, di lacrime se ne versano parecchie. Infatti, se in un certo senso l’iperbole del dolore mi ha indotta a riflettere sull’ironia del titolo, d’altro canto immagino che è proprio una vita come tante quella verso cui ci si sforza di propendere, una condizione di mimetizzazione con gli altri, in cui rappresentare un altro degli 8.8 miliardi di esseri umani che abitano il pianeta Terra. Eppure, siamo davvero sicuri che confondersi con gli altri voglia dire non soffrire?

Nessuno ha una vita come tante. Nessuno è immune al dolore. D’altronde il titolo mi ha fatto pensare ad alcuni personaggi che, seppur apparentemente privilegiati, celano fantasmi del passato oltremodo crudeli, in un bagaglio che con lo scorrere del tempo si fa progressivamente e inesorabilmente più pesante; questo tempo lo trascorriamo con i personaggi, viviamo con i protagonisti, con le loro emozioni, pensieri, sensazioni, pretesti. Abbiamo modo di assistere a uno stesso evento da prospettive diverse, vediamo quel fardello trascinarsi implacabilmente e non senza sforzi sulle loro strade e ci chiediamo quando finalmente il passato potrà lasciare spazio al presente restituendo tutta l’innocenza, la spensieratezza che ci ha sottratto.

Mi ha commosso il senso di conforto legato al concetto di casa. Concedetemi questa celebre citazione, presente anche nel libro: «E ditemi perché debbo esserne certo. Questo luogo che ho raggiunto, veramente è Itaca?». La nostalgia legata a un luogo in cui abbiamo vissuto non è da sottovalutare e un pezzetto di cuore resta a Lispenard Street, se ne parla proprio nell’incipit dal quale inconsapevolmente ci si allontana, ignorando che l’apparente normalità di quattro amici seduti a un tavolo di un localetto nei meandri più mediocri di New York, non è altro che una certezza a cui aggrapparsi con unghie e denti nei momenti più bui. Questo “tomone” – che di timore ne incute non poco – credetemi, vale la pena leggerlo.

A cura di Martina Montenero

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