«Un uomo non è del tutto sé stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera, e vi dirà la verità».
(Oscar Wilde)
Siamo agli albori del 1900, eppure niente sembra essere cambiato rispetto a quando Eschilo, Sofocle ed Euripide gettarono le basi della tragedia greca, del teatro per eccellenza.
Tale genere, come ogni cosa soggetto allo scorrere del tempo, primariamente politico e specchio della polis in cui si mettevano in scena gli spettacoli, arriva a rappresentare l’eroe solitario e, infine, l’universo delle emozioni e dei sentimenti umani. Difatti, l’uomo è una creatura complessa eppure semplice, che evolvendosi mantiene le proprie caratteristiche fondamentali: eros e thanatos (amore e morte), agathos e kakos (buono e cattivo), tyche e farmakon (la sorte che può insidiarsi come fausta o infausta, il veleno ed insieme l’antidoto). Sulla base di questi presupposti, è agevole capire perché rimanga ancora di imprescindibile importanza lo studio di civiltà come quella greca, che, con la propria cultura, ha platonicamente fondato il pensiero occidentale così come oggi, più o meno consapevolmente, lo conosciamo.
Il ciclo di incontri intitolato Il futuro ha un cuore antico promosso dall’Associazione Mea per le studentesse del Collegio, si propone dunque come occasione di approfondimento rispetto a questi temi. Nello specifico, le prime due conferenze sono state tenute magistralmente e con grande passione dalla professoressa di Lettere Classiche Annamaria Carinci, già presidente dell’Associazione MEA: le sue parole hanno posto le basi conoscitive propedeutiche per poter apprezzare pienamente la rappresentazione teatrale dell’Elena di Euripide, a cura della compagnia teatrale Kerkìs, ultima tappa di tale percorso.
Questo celeberrimo personaggio della mitologia viene rivisitato da Euripide in chiave alternativa, mostrandolo non già come la rinomata causa della guerra di Troia bensì attraverso gli occhi di una donna che soggiace al cuore. Dov’è, dunque, la sua colpa? Elena, infatti, è stata utilizzata come capro espiatorio a sua stessa insaputa. Quando le divinità Era, Atena ed Afrodite si contendono il titolo della più bella, Afrodite, per vincere, promette al giudice, Paride, l’amore di Elena. Quest’ultima, tuttavia, non si recherà mai a Troia ma a farlo sarà un suo fantasma, né tantomeno tradirà suo marito Menelao. Attraverso uno stratagemma e con la benevolenza delle divinità suddette, nuovamente compassionevoli nei confronti dei due coniugi sventurati, questi riescono a tornare a Sparta dall’Egitto, dove la vera Elena è tenuta in casa da Teoclimeno, figlio di Proteo. L’introduzione dell’elemento comico e il profondo fatalismo che permea l’opera euripidea balzano agli occhi di chi legge. I due Dioscuri, in qualità di deus ex machina, risolvono la faccenda garantendo il lieto fine ed affermando che gli esseri umani non possono influire sul destino e sulle decisioni degli dèi, i quali hanno già stabilito il corso degli eventi.
Il messaggio più pregnante contenuto in Elena e che, purtroppo, si rende ancora molto attuale è l’inutilità della guerra. A Troia ne viene combattuta una che costa morti, anni perduti, la distruzione di un’intera città: ma per cosa? Per poco più di un fantasma parlante, dal momento che in quella città Elena non ha mai messo, veramente, piede.
Le ultime parole spettano ad Euripide, perché ha saputo usarle con cura tanto da colpire ancora:
«E abbiamo sofferto, invano, per una nuvola?».
A cura di Federica Tarantino
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