Abolita l’attribuzione automatica del cognome paterno ai figli: un passo verso la parità di genere?

Lo scorso 27 aprile la Corte Costituzionale ha pronunciato una sentenza (rivoluzionaria nell’ambito del diritto di famiglia) che ha l’effetto di abolire l’attribuzione automatica del cognome paterno ai figli al momento della nascita. Da un comunicato stampa che precede la motivazione, risulta che i giudici hanno ritenuto la regola “discriminatoria e lesiva all’identità del figlio”; hanno inoltre affermato che “nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, entrambi i genitori devono condividere la scelta del suo cognome, che costituisce elemento fondamentale dell’identità personale”.

Secondo la medesima fonte, da ora in poi il figlio assumerà per legge il cognome di entrambi i genitori “nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto uno dei due”; qualora non ci sia alcun accordo in merito all’ordine di attribuzione dei cognomi “resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico”.

Tale provvedimento si pone in continuità con le progressive innovazioni apportate al diritto di famiglia, volte all’eliminazione definitiva dei residui di un retaggio patriarcale, formalmente superato a partire dalla riforma del diritto di famiglia del 1975. Tale riforma – alla luce del principio di eguaglianza definito dall’articolo 3 della Costituzione italiana – ha parificato in misura notevole i diritti e gli obblighi di marito e moglie, e di conseguenza dei genitori. Tuttavia, l’attribuzione automatica del cognome paterno ai figli (così come del cognome maritale alla moglie), era sopravvissuta con l’intento di preservare una formale unità familiare.

Ma questo era davvero simbolo di unità, o è piuttosto un segnale della persistenza di quel regime discriminatorio apparentemente abolito? La ministra per le pari opportunità Elena Bonetti si era espressa in merito, parlando di urgenza, in quanto “il meccanismo che in automatico fa attribuire il cognome paterno si fonda nella pretesa che sia sempre e comunque il maschile a prevalere”.

Era dunque evidente che la giurisprudenza si stesse muovendo a riguardo su due binari paralleli con direzioni opposte, che trovano un punto d’incontro nella sentenza della Corte Costituzionale del 27 aprile. Da un lato vi era quel regime ancora discriminatorio, dall’altro, i sempre più numerosi ed incalzanti tentativi di abolirlo.  Già nel 2016, la Corte Costituzionale aveva emanato una sentenza grazie alla quale è stata introdotta nell’ordinamento la possibilità, limitatamente ai figli nati nel matrimonio, di assumere il cognome materno in aggiunta a quello paterno, sulla base di un accordo tra i coniugi.

La sentenza in questione, invece, oltre ad abolire in ogni caso l’automatismo fino ad allora sussistente, riguarda non solo i figli nati all’interno del matrimonio ma anche quelli nati al di fuori di esso e riconosciuti, e i figli adottivi, coerentemente con la riforma in materia di filiazione introdotta nel 2012, che ha eliminato ogni distinzione tra figli nati in differenti circostanze.

Si pone però un problema, riguardante la retroattività della pronuncia. Di regola, le sentenze della Corte Costituzionale operano retroattivamente, dal momento che una norma dichiarata illegittima è come se non fosse mai esistita.  Secondo tale interpretazione, ogni cittadino italiano vivente dovrebbe portare ora il cognome di entrambi i genitori. Solo così, in effetti, vi sarebbe una vera e propria uguaglianza, ma ciò comporterebbe numerose difficoltà, non da ultimo burocratiche.

La sentenza del 27 aprile non ha risolto radicalmente le problematiche concernenti la parità dei diritti spettanti ai genitori, che necessiteranno di altri interventi in materia, ma, come ha affermato la ministra della giustizia Marta Cartabia, “si fa un altro passo in avanti verso l’effettiva uguaglianza di genere nell’ambito della famiglia”.

A cura di Chiara Macola

 

 

 

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