“Blackout” di Britney Spears Una luminosa pop-decadenza sonora.

Everybody’s talking all this stuff about me

Why don’t they just let me live? (Tell me why)

I don’t permission make my own decisions,

that’s my prerogative”.

Un grido d’aiuto contenuto in una linea melodica synth, incalzante, dai connotati clamorosamente spettrali e perturbanti: la canzone “My Prerogative” vive nel segno e nel sound di Danja, uno dei produttori dell’iconico album “Blackout” di Britney Spears. Un disco che, pur avendo avuto il plauso della critica, ha convinto anche i detrattori della Spears e  che si caratterizza, in questo, per essere il meno divisivo nella carriera della cantante. Uno sfavillante capolavoro del pop contemporaneo che si inserisce in una vicenda personale infelice e travagliata, costellata da divorzi (con Kevin Federline), liti ed aggressioni da e contro i paparazzi, in una parabola discendente di una macchina macina-soldi, che sin dagli esordi di America’s Sweetheart con il debutto di “Baby One More Time” è stata burattino delle majors discografiche. Il 2007, in questo quadro estremamente cupo nella vita della Spears, ispira le sonorità di Blackout, primo album che esula dalla definizione di pop di puro intrattenimento. Una delle prime motivazioni a monte di questo progetto che, rispetto agli album precedenti, risulta quasi sperimentale e “indie” a livello di produzione, sta nel fatto che Blackout si contraddistingue per la specificità di essere poco avvicinabile, criptico, nonostante le canzoni, ad un primo ascolto, siano catchy: un’orecchiabilità che “stona”, tuttavia, con la scarsa complessità strutturale dei pezzi ed il loro essere quasi abbozzati. Blackout è quindi semplicità ed è un disco che vive soprattutto di suoni: un party-album in segno negativo, quasi zombificato ed alienante, rispetto ai precedenti, peculiarità già ravvisabili con l’ascolto del singolo apripista “Gimme More”. L’alienazione che permea le tracce emerge, in particolare, anche dal fatto che la voce della Spears sia quasi deumanizzata poiché fortemente trattata a livello digitale e privata di profondità vocale. Ciononostante, e paradossalmente, Blackout si caratterizza per essere il disco più personale di Britney Spears che, pur non avendo curato i testi, come aveva fatto in “In the Zone”, risulta totalmente immersa in questo progetto e vede la sua vicenda personale riflessa nelle sonorità estranianti ed elettro-pop delle basi strumentali. Proprio per questo motivo, Blackout si pone quasi come avveniristico, antesignano della tendenza techno/electro-house che di lì a pochi anni avrebbe dominato il mondo del mercato discografico mainstream con l’uscita di “The Fame” di Lady Gaga, e che la Germanotta avrebbe poi ripreso in altri progetti musicali successivi come “The Fame Monster”, “Artpop” (alcuni esempi di tale approccio sonoro si notano in “Aura”), “Born This Way” (“Judas” , a questo proposito, è particolarmente rappresentativo), nonché nel più recente album “Chromatica”. Nel suo sound “abbozzato”, Blackout sembrerebbe nascere in maniera anarchica, molto istintuale e poco ragionata: nonostante gli album precedenti fossero contrassegnati da hit estremamente curate nel sound e nella composizione e produzione tecnico-sonora, ma comunque costellati da pezzi filler, riempitivi, di poco impatto, questo capolavoro del 2007 si pone in un segno diverso, alternativo e controcorrente, in una lunghissima sequenza di pezzi pop scintillanti ed istintuali, quasi rudimentali, cacofonici, funerei, scuri ma sessualmente espliciti. Si tratta, infatti, del disco più spinto e sfacciato di Britney: non è semplicemente composto da pezzi sexy, ammiccanti o allusivi, ma da vere e proprie estremizzazioni rappresentative della svolta di emancipazione adulta che Britney aveva compiuto anni prima con “In The Zone” (del 2003, di cui ricordiamo la favolosa “Toxic), e anteriormente in un primario tentativo con l’uscita di “I’m a Slave 4 U”(contenuta nell’album “Britney”, del 2001). Un’estremizzazione che, sotto certi aspetti, risulta quasi parodica ed ansiogena, estraniante ma che è, nonostante i filtri vocali, emotivamente potente, così come dimostrato dal pezzo “Get Naked (I Got a Plan)”, un brano spinto ma che presenta un refrain, cantato dal produttore Danja, che consiglia alla cantante di lasciarsi andare: un suggerimento quasi ironico dato che il filtro vocale sembra voler mostrare, con il suo utilizzo, quasi una parodia delle tipiche canzoni pop ammiccanti ma banali. Tuttavia, proprio il trattamento sonoro delle voci con questi filtri quasi robotici esprimono, ad un secondo ascolto, un’atmosfera sinistra, estraniante e quasi decadente, senza tuttavia voler lasciare da parte la sensualità. Ciò che rende unico l’album è la commistione tra erotismo, spudoratezza, oscurità, decadenza, profondamente d’impatto nella sua esagerazione “pop” ma perturbante. Blackout è quindi un album organico, coeso, ma al contempo straripante di idee che unisce, sul piano sonoro, eros e thanatos: è un disco “sporco”, macilento, ma al contempo libero, spudorato e non artificiosamente pre-confezionato. Una perla che merita sicuramente una chance di ascolto.

A cura di Alessia Rigamonti

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