Le “mega-carceri” di El Salvador La fine di una violenza o l’inizio di una violazione umana?
El Salvador, Paese del centro America, è stato a lungo considerato uno degli stati più pericolosi al mondo e uno dei luoghi più violenti dell’America Latina. Le principali cause di questa situazione si possono individuare nell’elevato tasso di omicidi, nei drammatici anni della guerra civile e nel persistente controllo esercitato dai clan locali sulla popolazione civile.
La popolazione locale sembrava ormai rassegnata; fin quando non si profilò all’orizzonte un cambiamento significativo. Un cambiamento che portava il nome di Nayib Bukele: il nuovo Presidente, giovane e ricco di ambizioni, è passato alla storia del Paese per essere riuscito, già nel primo anno del suo mandato, a ridurre i crimini violenti sotto la soglia del 50%. Questo risultato è stato possibile grazie al massiccio impiego di forze di pubblica sicurezza, con interventi significativi anche nel sistema penitenziario.
Cosa è successo, però, esattamente? Per comprendere meglio il contesto di questo Paese, a noi solo lontano geograficamente, è fondamentale ripercorrere gli anni pre pandemia per capire l’origine di tutte queste guerriglie interne.
Correva l’anno 2019 e Bukele fu eletto come outsider (ndr sfavorito in campo politico) a capo del partito Nuevas Ideas, con l’obiettivo di potenziare i servizi pubblici nelle aree periferiche, là dove le bande criminali trovavano terreno fertile; inoltre, inaugurò una stagione di dialogo con i boss di questi clan portando a una forte riduzione del tasso di omicidi, a fronte del rilascio di alcuni membri di questi gruppi mafiosi al tempo incarcerati. Come riportano i dati della polizia locale, fu proprio questo il periodo in cui si registrarono minori scontri e arresti; ma questa tregua durò relativamente poco. Difatti, nel marzo 2019 si registrò un’improvvisa ondata di tensione e violenza, alimentata dal malcontento delle bande criminali.
La brusca interruzione della collaborazione tra il partito e i clan determinò un isolamento di questi ultimi, provocando un’intensificazione dei conflitti con le forze armate, impegnate in un confronto diretto e continuo con le bande criminali.
El Salvador, oggi, si trova in un cosiddetto “Stato di eccezione”, espressione che nelle scienze politiche denota “una particolare situazione all’interno di uno Stato che comporta la sospensione delle caratteristiche tipiche di uno Stato di diritto”, situazione prorogata più di 22 volte e la cui revoca è stata richiesta dalle Nazioni Unite stesse.
Cos’è uno stato di diritto? Lo Stato di diritto è una forma di Stato che garantisce la salvaguardia e il rispetto dei diritti e delle libertà di ogni essere umano; e, unito alla garanzia dello stato sociale, concorre alla definizione dei diritti che gli Stati membri delle Nazioni Unite si impegnano a garantire ai loro cittadini. In questo Paese, ormai difficilmente definibile come tale, la lotta alla criminalità si traduce nell’indagine e nell’arresto non solo di chi ha legami attuali con le bande, ma anche di chiunque li abbia avuti in passato o sia solo sospettato di averli. Questo approccio ha portato, in un arco di tempo molto breve, all’arresto di oltre 70.000 persone. Così si è sviluppato il fenomeno delle “mega carceri”.
In un clima così teso e rancoroso, non si deve dimenticare che, per quanto il regime di Bukele sia stato definito “autocratico” dai media di molti Paesi, egli sia ampiamente sostenuto dalla popolazione salvadoregna. Il trattamento riservato ai prigionieri ha allarmato organizzazioni internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International, le quali hanno documentato almeno dieci casi di decessi in custodia (ndr il numero si aggira attorno ai cinquanta) a seguito di torture e sevizie da parte dei corpi di polizia e delle guardie penitenziarie (ndr fatti riportati nelle dichiarazioni di alcuni detenuti scarcerati, i quali hanno affermato di aver assistito a pestaggi mortali nei confronti dei compagni, allo scopo di estorcere loro confessioni o di punirli).
Nessuno di questi casi è mai stato oggetto di un’indagine approfondita. Le morti, spesso attribuite a cause come “asfissia meccanica”, “percosse” o “traumi multipli”, sono avvolte quasi sempre nel silenzio, e i familiari delle vittime non sono mai stati informati onestamente e ufficialmente delle circostanze di questi decessi.
Oltre ai maltrattamenti, è stato riferito come i detenuti siano privati di cibo, di acqua, di medicinali e di cure mediche. Una situazione complicata. Diverse sono le domande che ci possono sorgere nel guardare queste atrocità: come si può porre fine a questo tipo di violenza, quando questa è conseguenza diretta di un’altra? Come si può definire che qualcosa sia sbagliato, quando sono i cittadini stessi di un Paese a invocare l’attuazione di metodi di repressione? Dov’è la giustizia?
Ad un regime di terrore, se ne sovrappone un altro. Cosa ci aspetterà ancora? Ad oggi, nessuno ha una soluzione concreta a questo odio che continua a moltiplicarsi, ma possiamo sperare ancora in un futuro migliore?
La riflessione rimane aperta, auspicando sempre in un migliore aggiornamento dal mondo.
A cura di Chiara Galletta
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