“Se un albero cade nella foresta e nessuno lo sente, fa rumore?” George Berkeley.
Alcune guerre sono mute, di altre invece c’è una bulimia di informazioni. È fondamentale, perciò, che le coscienze europee non abbandonino l’Iran e il suo destino. Dal 1979 gli Iraniani non possono giocare a carte, bere alcol o ascoltare musica occidentale, a causa di un regime che impone condizioni politiche, economiche e sociali oppressive e disumane.
Affinché una Nazione, come l’Iran, che ha già perso molto, e la cui storia, ricolma di dolorosi incubi, non rischi ancora una volta di scomparire, decidiamo di ascoltare il drammatico racconto di Babak Monazzami, attivista ed artista iraniano, nonché protagonista del documentario Stai fermo lì, realizzato dalla giornalista Clementina Speranza. Siamo a Khorram Abad, ma anche ad Isfahan, in un angolo del mondo dove Babak nasce in una famiglia numerosa e, sin da bambino, si dimostra una persona talentuosa e curiosa di scoprire il mondo che lo circonda. Già dalle prime scene del documentario, emerge una cosa chiara: la sofferenza. Vedere il suo popolo bombardato e successivamente, privato delle libertà e dei diritti fondamentali, accresce in lui la necessità di vivere la democrazia e la giustizia, sentimento che caratterizza tutta la sua vita, portandolo prima in Italia e poi in Germania, dove oggi vive.
I suoi anni in Iran, e non solo, sono caratterizzati da torture, arresti, maltrattamenti inumani come crudele conseguenza della sua scelta di parlare, agire, manifestare pacificamente o, semplicemente, esprimersi attraverso il proprio abbigliamento in pubblico. Un Paese, insomma, in cui è vietato essere liberi. Questo frastuono di paura e di abbandono lo perseguita anche una volta giunto in Italia dove Babak, dopo aver avviato un proprio percorso lavorativo, inizia a ricevere nuovamente minacce e aggressioni. Decide, dunque, di dirigersi in Germania, dove tuttavia per un errore burocratico – durato ben sette anni – la polizia tedesca non riconosce i documenti comprovanti il suo status di rifugiato politico e, così, viene trattenuto in un centro di accoglienza. Questo gli causerà la perdita del diritto alla cittadinanza italiana.
Durante la proiezione del documentario, al Collegio Marianum, Babak si allontana, per non rivedere le atrocità che ha prima subito e poi narrato; eppure oggi, come emerge dalle sue risposte alle tante domande che hanno mosso la platea, dimostra di aver accettato le angherie degli uomini, senza mai giustificarle, poiché esse gli hanno spezzato i muscoli, ma mai la Fede. Così, sopravvissuto alle torture e avvinghiandosi al dovere di lotta per la libertà, si impegna, ogni giorno, per raccontare una storia dolorosa, contraria alla vendetta e all’odio, che possa essere d’esempio per chi vive in un paese diverso dal suo. Un Paese, l’Europa, che però non si può dire sia indenne da minacce totalitarie, ché senza volere la tirannide, il popolo sempre brama dei fini che la implicano (N.G.Davila). Per non dimenticare mai, è fondamentale riflettere sui principi della Dichiarazione Universale dei diritti umani. Questa, all’articolo 3, recita “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”, all’articolo 5 dispone come “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti” e, infine all’articolo 6 prescrive come “Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica”.
Ascoltiamo l’invito di Babak e il suo grido di difesa per la Democrazia, affinché non si spenga mai quella fiaccola di misericordia che alimenta l’umanità e la tiene unita contro il nemico: l’odio.
A cura di Anita Cavarretta & Rachele Rondinella
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