“Quando sono triste non posso aver paura”, Nel padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia
Al secondo piano del Collegio Marianum, in quella che noi chiamiamo ‘Cucina 2’, c’è una finestra stupenda. E’ ampia e, in primavera, i suoi vasti vetri permettono ai raggi del sole di filtrare all’interno della stanza, illuminando i riflessi delle tazzine di caffè sul tavolo bianco. D’inverno, invece, accoglie le nostre serate di storie e tisane fumanti mentre, nel buio della sera, si staglia come una porta aperta verso le mille altre vite che scorrono parallele dietro le finestre del palazzo di fronte. Talvolta, mi sono soffermata ad osservare quella porzione di mondo, a contemplare le finestre dalle luci spente e a domandarmi, al contrario, quali vite si celassero dietro le finestre dalle luci accese. Pareva naturale.
Quando, il 19 novembre scorso, un gruppo di collegiali si è recato insieme ad Avvenire presso la Casa di Reclusione Femminile della Giudecca, la nostra guida ci ha indicato una finestrella rettangolare.
Al centro delle persiane spalancate vi era una piantina, come in tante delle nostre camere, e la visuale dava su un orto verde e rigoglioso, simile al nostro giardino. Una finestra, dunque, come avrebbero potuto essere altre 150. E’ iniziato così il nostro viaggio all’interno del padiglione della Santa Sede, alla Biennale d’Arte di Venezia: un invito a spogliarci della nostra prospettiva, di tutto ciò che fino ad allora avevamo dato per scontato, delle lenti attraverso cui avevamo letto l’universo all’esterno. Prima ancora di entrare, ci era stato dato un giornale, L’Osservatore di Strada, periodico dell’Osservatore Romano di Città del Vaticano. A riguardare ora la prima pagina, mi accorgo di cose che, prima di quell’istante, non avrei potuto capire; sotto a una foto del murales Father, di Maurizio Cattelan, posto sulla facciata della chiesa della Casa come gigantografia di suole dei piedi consumate, consunte e trafitte da un lungo peregrinare, gli editori hanno inscritto quella stessa raccomandazione: ‘Con i miei occhi’.
Sono state due ospiti della Casa a farci da guide. Abbiamo iniziato in una caffetteria dai muri ricolmi di quadri, scritte e disegni dai colori sgargianti, di tratti marcati e lettere cubitali, dove un’iride tracciata su una tela pareva guardarci da qualsiasi angolazione della stanza, e la parola ‘HOPE’ scritta al contrario troneggiava in un rosso scarlatto. Abbiamo poi attraversato un corridoio di mattoni, sulle cui pareti campeggiano lastre in lingue differenti e grafie uniche, pensieri scritti e riscritti e poi incisi sul marmo. E in questo mondo così piccolo e intrinseco di dubbio una donna aveva confessato, ‘Quando sono triste non posso essere fragile. Quando sono triste non posso aver paura’. E la finestra senza sbarre. L’opera che non è stata creata da mano d’artista ma che, per le guide, era arte comunque.
In seguito, abbiamo attraversato un altro stretto corridoio. Ci siamo girati e, in fondo alla via, abbiamo notato un segnale a led illuminato nella nebbia del mattino: un occhio spalancato di neon rosso, sopra al quale vi era una linea in diagonale. “E’ il simbolo usato sui social per negare la visione dei contenuti sensibili”, ci hanno spiegato. Quelle realtà presenti, umane, reali, vive, che la società cerca di cancellare, di non mostrare, come fossero il disordine che nascondiamo negli armadi nella speranza di non dovercene occupare, o come le storie che nascondiamo sotto al letto per non essere obbligati a doverle raccontare. Nello spazio esterno, dove le ospiti ci parlavano delle loro camminate giornaliere e dei loro momenti di ritrovo, si ergeva un’ulteriore scrittadedicata a loro: ‘SIAMO CON VOI NELLA NOTTE’. Era l’opera preferita di una delle nostre due guide. “Mi piace perché, dopo averla vista, una ragazza ci ha detto che ora ci sarebbe stata una persona in più, là fuori, che avrebbe pensato a noi”. Nella notte, dove tutto è buio come l’oscurità della negligenza altrui, e dove tutto sembra fare un po’ più paura, la luce di un pensiero o una preghiera o il sorriso del proprio bambino diviene scoglio a cui aggrapparsi per non lasciare l’animo naufragare. Orgogliose, ci hanno poi mostrato la sala dove avvengono gli incontri coi loro familiari. “L’abbiamo dipinta noi”, ha esclamato la seconda guida, indicando con timida fierezza le pareti lilla. “Non è un’opera della Biennale” – ha voluto specificare – “Ma vogliamo mostrarvela lo stesso”.
L’opera successiva era un cortometraggio in bianco e nero girato all’interno della Casa di Reclusione, per raccontare il percorso dell’ultimo giorno di carcere di una delle ospiti, la quale si accingeva a immergersi nuovamente nel vasto mondo al di là della laguna e dell’isola della Giudecca. Due precisazioni hanno preceduto la visione, attraverso le parole stesse delle ospiti della Casa: la Polizia Penitenziaria, per loro, non era ‘guardia’ ma ‘assistente’; la rappresentazione, nella cinematografia, delle assistenti dure e schive nei confronti delle donne in carcere, si scontrava con la realtà del loro essere umane. Infine, ci siamo recati presso gli ultimi due elementi del padiglione.
“Questa, invece, è la mia opera preferita”, ci ha raccontato la seconda guida, davanti a una composizione di cornici contenenti i volti di bambini e giovani: ritratti candidi di vite ancora da scrivere. Ha sfiorato un viso in particolare; “Lei è mia figlia”.
Per la realizzazione del complesso di quadri, unica opera tra quelle da noi visitate che continuerà a viaggiare e a venire esposta, l’artista Claire Tabouret ha domandato alle donne della Casa degli scatti dei bambini che fanno parte delle loro vite: figli, nipoti, cugini, loro stesse da piccole. Due fratelli al mare, un neonato che osserva per la prima volta il cielo sconfinato, un giovane col suo fidato cane. Come il segnale dei contenuti sensibili denunciava la mancanza di luce e visibilità verso le storie che si intrecciavano in quest’angolo della Giudecca, così i ritratti di Tabouret donavano voce e importanza a coloro che non potevano raccontarsi, trasformando gli amori e le vite tralasciate in arte itinerante, occupando uno spazio nel mondo per coloro che temevano di perdersi nell’anonimato impostogli dalla società, ritrovandosi poi protagonisti di qualcosa di molto più grande.
Il percorso si è concluso nella Chiesa della Maddalena delle convertite, dove un’installazione di tessuti, materiali, fili, cuciture e drappi raccolti da dieci anni di viaggi attorno al mondo riempiva la sala, cascando dal soffitto. Per noi, era solo uno sfondo. La vera opera d’arte era l’abbraccio delle due donne alla fine di un’altra mostra: il bacio sulla fronte di una sorella maggiore trovata lì dove solo una finestra è finestra per davvero.
E mentre tornavamo a Milano, attraverso il finestrino del treno, attraverso i vetri di Cucina 2, attraverso il davanzale di camera mia, e con occhi che erano i miei ma forse non più, continuavo a ricordarmi che non sempre ci sono 150 finestre che danno sul mio stesso giardino.
A cura di Francesca Germano
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