“RipArazioni. Le professioni dell’art. 27 della Costituzione” è il titolo del primo ciclo di conferenze dell’anno accademico in corso, organizzato dal Collegio Marianum in collaborazione con il quotidiano Avvenire.
Il progetto nasce con l’intento di riflettere sul valore rieducativo della pena, dialogando con le figure professionali che operano nel sistema penitenziario, per approfondire le sfide e le contraddizioni legate al tema. Tra queste, emerge con forza la realtà del sovraffollamento carcerario, che non solo deteriora le condizioni di vita dei detenuti, ma influisce negativamente anche sul lavoro degli operatori e dei professionisti che ogni giorno affrontano questa complessa realtà. Questa problematica rende evidente una profonda contraddizione rispetto a quanto sancito dall’articolo 27 della Costituzione, che concepisce la pena come uno strumento per il recupero della persona, e non come mera retribuzione a vantaggio della società lesa dal reato.
Le carceri italiane accolgono migliaia di persone che, non di rado, hanno scelto la via del crimine come unica alternativa alla povertà estrema. Giacinto Siciliano ha concluso da poche settimane il suo incarico come Direttore della Casa Circondariale Francesco di Cataldo, di via San Vittore, e si appresta ad avviare, con la medesima dedizione, il nuovo incarico come Provveditore della regione Lazio. Il dott. Siciliano racconta la sua trentennale esperienza da operatore dell’amministrazione penitenziaria. Ogni giorno, riferisce il dott. Siciliano, arrivano in struttura circa 25 detenuti per reati minori, come piccoli furti o spaccio di droga. Per queste persone, il carcere rappresenta raramente un’occasione di riscatto o rieducazione; senza interventi concreti e percorsi rieducativi, il sistema finisce per diventare un meccanismo ciclico e sterile, che perpetua le condizioni che hanno condotto al reato, anziché interromperle. Una volta liberi molti tornano a delinquere, dimostrando l’urgenza di un approccio diverso.
Affinché il carcere possa realmente svolgere una funzione rieducativa, è necessario che le pene siano orientate al futuro, favorendo la crescita personale e il reinserimento sociale del condannato. Si tratta di un obiettivo ambizioso, incoraggiato dai dati: il tasso di recidiva scende dal 70% tra chi non segue alcun percorso rieducativo al 16% per chi ne beneficia, fino a ridursi quasi a zero per chi, oltre alla rieducazione, acquisisce competenze lavorative spendibili all’esterno. Non si tratta solo di umanità: recuperare una persona è anche una scelta pragmatica, che rafforza l’intera società e riduce sensibilmente i costi sociali del crimine. Questa visione si traduce nella necessità di considerare il carcere non come un luogo di decadenza, ma come un punto di ripartenza. È un messaggio che risuona anche nelle parole di Alfredo Sole, ergastolano in regime ostativo, che in una lettera alla città di Racalmuto invita a riflettere sui costi umani e morali di una vita deviante, e descrive la detenzione come un percorso che deve portare a riconoscere il danno commesso e, al contempo, a lasciare l’odio alle spalle. La giustizia riparativa, in questo senso, non si limita a sanzionare un colpevole, ma offre la possibilità di costruire un ponte tra la persona, la vittima e la società. È una giustizia che richiede coraggio e umiltà, poiché implica il riconoscimento del fatto che la criminalità è spesso il risultato di contesti sociali e culturali fragili, che richiedono un’assunzione di responsabilità collettiva.
Il recupero del condannato è particolarmente rilevante nei reati di stampo mafioso, che rappresentano una ferita profonda per la società intera. Una persona rieducata, che rompe i legami con l’organizzazione criminale, mina alla base l’attrattività del crimine organizzato, testimonia il fallimento di quello stile di vita e rappresenta una vittoria per la legge. Le associazioni mafiose temono non solo i pentiti, ma anche coloro che, uscendo dal carcere, scelgono di ricostruirsi una vita dignitosa. È il simbolo di una giustizia che non si limita a colpire, ma che vince nel momento in cui trasforma.
Il compito rieducativo impone certamente costi e sforzi notevoli, richiede risorse, personale formato e una visione lungimirante da parte delle istituzioni, ma i benefici superano di gran lunga gli oneri. Una persona recuperata non solo interrompe il proprio percorso di criminalità, ma contribuisce alla prevenzione generale, riducendo il rischio che altri seguano la stessa strada. Come dimostrano i dati riportati dal professor Scopelliti, docente di Psicologia presso il nostro Ateneo, la recidiva è strettamente legata all’accesso a percorsi rieducativi e alla possibilità di costruire una vita autonoma e dignitosa fuori dal carcere.
Ogni fallimento del sistema penitenziario si traduce in tragedie umane, come dimostra il numero dei suicidi registrati tra i detenuti nel 2024. Questo dato drammatico sottolinea l’urgenza di trasformare il carcere in uno spazio di speranza e non di disperazione. È proprio dall’articolo 27 della Costituzione che dobbiamo partire per ribadire che la pena non può essere concepita solo come punizione, ma deve essere uno strumento per il riscatto e il reinserimento. Considerare il detenuto come una persona e non solo come il suo reato significa non solo rispettare i principi costituzionali, ma adottare la più efficace tra le strategie di prevenzione. In questo senso, il recupero della persona non è un gesto di debolezza, ma un atto di forza, che rafforza l’ordinamento giuridico e offre alla società un futuro più giusto e sicuro.
A cura di Alessia Valenziano
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